Attore e spett-attore si liberano del titolo alle soglie del debutto
Ogni metalogo è un dialogo intorno a qualcosa. Qualcosa di problematico, che a girarci intorno in genere non si va a finire da nessuna parte. E comunque, dove vuoi andare che col naso ficcato in questa rivista davvero appassionante rischi di finire dritto dritto contro un lampione?
Hai controllato? Non c’è di che.
Anche noi ci siamo mossi poco nello scrivere questo dialogo intorno alla Liberazione, quella che può avvenire a teatro. Infatti eravamo al bar, laddove trovi la maggior concentrazione di attori soprattutto quando l’ora si fa tarda.
Questa insomma è quasi una conversazione origliata, oppure una chiacchierata fatta dopo uno spettacolo di ricerca. Una conversazione fra TE e ME.
TE: Forse perché in teatro c’è sempre bisogno di titoli di credito? In fondo è così che ci paghiamo l’aperitivo.
ME: Se fai l’attore più che altro vai a credito. Non ne hai molto di tuo, giusto quello che ti accorda il pubblico. Ad esempio, hai notato che Corrado D’Elia chiede sempre consigli su Facebook riguardo al titolo dei suoi nuovi spettacoli?
TE: È fondamentale il pubblico. Per esempio, si dice sempre che senza spettatore non c’è teatro. Quindi secondo te non c’è neanche l’attore? Niente più aperitivo?
ME: Non “si dice”, lo diceva Brecht. Ed è così. Ma è una domanda molto complessa. Prima bisognerebbe spiegare la differenza tra attore e spettattore.
TE: ‘spetta… una t.
ME: Come?
TE: Hanno due etimologie diverse. Spettatore, da spectare, guardare. Attore, da agere, agire. Eppure, nella nostra lingua, le due parole hanno finito per assomigliarsi; la differenza sta solo in “spetta” e in una “t”.
ME: Divertente. Ma se uno agisce e l’altro guarda l’azione significa che ciò che fa il primo non ha senso senza ciò che fa l’altro.
TE: Questo vuol dire che possiamo considerare i due termini attore/spettatore come correlativi. Cioè, due concetti che si implicano a vicenda, come il giorno e la notte.
ME: Certo. Come mittente e ricevente di qualsiasi comunicazione.
TE: Quindi partiamo dalla considerazione che il teatro è comunicazione?
ME: Per forza. L’arte è comunicazione. Sono correlativi anche artista e tutti quelli che leggono libri, vanno alle mostre, ascoltano i concerti; no?
TE: A considerarla così, mi viene in mente l’assioma di Paul Watzlawick: non si può non comunicare. Vale anche per l’arte?
ME: Be’, vale per i francesi.
TE: Cioè?
ME: Bateson, l’antropologo, diceva che i francesi gesticolano per dare un significato al momento in cui smettono di gesticolare.
TE: Anche liberarsi da una comunicazione comunica qualcosa.
ME: Come quando il pubblico si alza durante uno spettacolo. Oppure come quando a teatro non ci va proprio.
TE: Perché non ci va?
ME: Domanda da un milione! Forse perché vuole liberarsi da qualcosa che trova inutile.
TE: Tutta l’arte è perfettamente inutile. Però il teatro serve a qualcosa; ad esempio secondo i Greci portava alla catarsi.
ME: Non so se esista veramente la catarsi. Hai presente il dibattito sui videogiochi violenti? C’è chi dice che siano una valvola di sfogo virtuale per gli istinti aggressivi e chi crede che invece li alimenti, perché desensibilizza alla violenza, abitua a sparare o fare stragi anche se solo nel gioco. Parlando di teatro contemporaneo, mi sembra che gli spettacoli ci portino a riflettere e a scavare nei concetti più che a liberarcene.
TE: La riflessione non è liberatoria? Voglio dire, non è per questo che quando ci confrontiamo con qualcuno su un argomento che ci preoccupa ci sentiamo subito meglio? Come se una parte di noi sentisse la necessità di guardare in faccia quello che più ci spaventa.
ME: Com’era per i Greci, del resto. Si racconta che alla prima rappresentazione delle Eumenidi di Eschilo le gestanti abortirono dallo spavento. Non per questo le rappresentazioni teatrali furono bandite. Quindi torniamo alla domanda, debuttare è catartico?
TE: Non lo so più. Continua.
ME: Al momento del debutto l’attore si libera dall’incombenza di andare in scena. C’è tutta la tensione della prima, la paura che non vada bene; dopo la performance non bisogna più preoccuparsene.
TE: Ma nel liberarsi trova anche un ruolo. Ha provato quello spettacolo fino alla data della prima ma nessuno l’ha ancora visto in scena. Nessuno sa che cosa farà.
ME: Certo, perché al debutto si vede per la prima volta quel tal attore impegnato in quel tal altro spettacolo. In passato si definiva allo stesso modo anche la prima uscita pubblica di una ragazza: il “debutto” in società.
TE: Per questo alla Teulié si fa il ballo delle debuttanti?
ME: Per questo e per il buffet. Ma il punto è che il debutto è solo una piccola parte di ciò che si vede. Tu credi che una debuttante sia sempre fasciata da broccati rosa confetto? È una messa in scena anche quella: début in francese indica quello che sta in punta, come la parte visibile di un iceberg. Senza il corpo sommerso sotto a sostenerlo, non si vedrebbe; come lo spettacolo senza prove. E come un ballo senza l’accurata scelta degli abiti giusti.
TE: Non mi confondere! Abbiamo detto che l’attore è tale solo in funzione del pubblico; è vero?
ME: È quello che abbiamo detto.
TE: Allora mentre è in prova è attore solo per metà, come un pilota che guida un simulatore invece di una macchina vera.
ME: Sì, è un modo di vedere la faccenda. Ma attenzione a dimezzare il povero attore, ti stai dimenticando l’altra metà del teatro.
TE: Che sarebbe?
ME: Lo spettatore. Lui attraverso lo spettacolo si libera dalle pulsioni nascoste, le esorcizza come dicevano i Greci, che degli attori non si occupavano, tanto erano quasi tutti liberti.
TE: Ha senso. Attore e spettatore sono correlativi. Anche la liberazione avverrà sia in un senso sia nell’altro.
ME: Se lo spettacolo è fatto bene, sì.
TE: E altrimenti?
ME: Credo che ci siano delle condizioni per la catarsi; che succede se l’attore sbaglia le battute, o arriva stanco alla prima e non fa il suo? Al pubblico è sufficiente assistere per sentirsi liberati o la catarsi dipende da ciò a cui si assiste, magari perfino dallo sguardo che si dedica a ciò che va in scena?
TE: È vero, se guardo distrattamente non verrò colpito da quello che succede, mi perderò dei pezzi. Penso che sia per l’attore sia per il suo pubblico il problema sia l’intensità, tanto dell’interpretazione quanto dell’attenzione alla scena.
ME: Fai bene a cercare una soluzione comune, è più semplice se la risposta è una sola. Ma che succede se li guardi uno per volta, prima l’attore e poi lo spettatore?
TE: Che l’attore non si libera affatto, in fin dei conti. Anzi man mano che le repliche proseguono rischia di ingabbiarsi sempre più in uno spettacolo rigido, in cui dà forma alle sue idee e così le conferma di sera in sera.
ME: Interessante: lo spettacolo è l’argomentazione che l’attore usa per comunicare un messaggio allo spettatore. La catarsi del pubblico consiste nel liberarsi dalle idee proprie per abbracciare, temporaneamente, quelle altrui.
TE: Credo che chiunque si metta al lavoro su uno spettacolo debba in quel momento selezionare e isolare un frammento di realtà, sua o altrui. La liberazione incontrollata porterebbe a troppi materiali di scarto, incomprensibili quindi impresentabili in una comunicazione. Sarebbero balbettii. Invece un pensiero comunicabile ha una sua forma definita, la struttura dello spettacolo appunto.
ME: L’attore continua a rivivere il materiale che ha liberato, mentre lo spettatore lo vive una sola volta. Per l’attore c’è reiterazione, per lo spettatore unicità. Forse l’unico momento in cui si trovano davvero accomunati è il debutto. Quando nessuna delle due parti sa quello che avverrà, l’attore non ha ancora trasformato l’unico in ripetizione.
TE: Certo, l’attore ha fatto delle prove, e anche lo spettatore ha visto altri spettacoli, ma nessuno dei due ha ancora visto “quello”.
ME: E se la liberazione per l’attore fosse vivere ogni spettacolo come un debutto?
TE: È una cosa che comunemente si dice, ma nella pratica è molto complessa. Perché vuol dire ogni volta mettere in discussione, in gioco, qualcosa di nuovo, anche in una struttura definita.
ME: Le battute ad esempio sono sempre quelle. E i movimenti anche.
TE: Però non saranno mai uguali, qualche differenza c’è sempre tra uno spettacolo e l’altro. Stiamo parlando di teatro, non siamo mica al cinema dove la pellicola riproduce tutto esattamente come è stato montato, nei minimi dettagli.
ME: Ma il titolo è sempre quello.
TE: Giusto. Chissà perché si usa dare un titolo agli spettacoli teatrali?