Dell’etica del rispetto e dell’etica dell’amore
Nell’arco lungo cui si sviluppa una relazione sentimentale, il corteggiamento è un momento di transizione. Analogamente, la domanda di matrimonio nella quale può risolversi un corteggiamento fortunato costituisce una cesura, uno spartiacque al di qua del quale si trova il rapporto di due persone che vanno gradualmente conoscendosi e prendendo confidenza l’una con l’altra e al di là del quale si trova, invece, l’intimità tendenzialmente priva di sorprese della coppia fatta.
Nella discontinuità tra ciò che precede e ciò che segue la transizione del corteggiamento e della domanda di matrimonio – transizione complessa che però, ai fini di queste riflessioni, tratterò come un’unitaria e uniforme nebulosa seduta da qualche parte tra l’alfa dei primi approcci e l’omega della routine coniugale – si trova anche il discrimine tra quelle che, un po’ pomposamente, chiamerò due etiche: l’etica del rispetto e l’etica dell’amore.
L’etica del rispetto è quella per cui l’interazione fra due soggetti è regolata dal principio del dovere. Impersonale, se non cieca, essa prescrive solo la forma delle nostre azioni; e proprio per questo può essere applicata sempre, nel venire in contatto di qualunque soggetto con qualunque altro soggetto. La forma che essa prescrive alle nostre azioni, di cui lascia di per sé indeterminato il contenuto, è la forma dell’incondizionatezza: «Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale»[1]. L’etica del rispetto è, nel suo senso più intimo, che è poi il suo senso più scoperto, un’etica per sconosciuti; ed è per questo, anche, che il nostro fantasticare di un kantiano regno dei fini può portare con sé l’impressione di una grande solitudine.
L’etica dell’amore, per contro, è un’etica per amici, amanti e parenti. Il suo principio non risiede nel dovere ma nella devozione, cioè in qualcosa di esclusivo, refrattario alla generalità. È il suo oggetto a darle tutto il suo senso, e nulla, o quasi nulla, in essa è formale. L’etica dell’amore non si interroga sull’aspetto che la massima di un dato comportamento assumerebbe venendo adottata come legge universale; anziché valere per ogni interazione, a prescindere da chi ne sia protagonista, essa vale per una piccola cerchia di prossimi alla felicità dei quali è interamente votata. L’etica dell’amore vale, in breve, solo per chi si ama.
Questo modo di presentare le cose suggerisce che la transizione di cui sopra sia, nell’ordine, dalla cautela del rispetto all’informalità dell’affetto; e che, però, con ciò che si guadagna in termini di complicità qualcosa vada perso in termini di moralità. Non – voglio dire – perché l’etica dell’amore significhi immediatamente familismo e solidarietà quasi tribale, non cioè perché essa incoraggi senza esitazione, per fare il bene del “proprio”, a fare il male di tutto ciò che è “altrui”: se infatti l’etica dell’amore vale, appunto, solo per chi si ama, allora per chi non si ama potrebbe, anziché non valere nessuna etica, valere ancora quella, fredda, del rispetto.
Il problema è precisamente ciò che può accadere nel contesto relativamente rassicurante dell’intimità consolidata man mano che ai convenevoli, presto e volentieri sacrificati, della buona educazione, e persino alle esteriorità del linguaggio verbale, si sostituisce l’intesa vera o presunta dell’empatia o del sesso. Nel convertirsi un rapporto umano da quello tra sconosciuti a quello tra amanti, il reciproco rispetto sembra cedere il passo al reciproco bisogno, e questo forse sarebbe già abbastanza per dire che l’etica dell’amore non è un’etica affatto.
Questa conclusione può suonare del tutto assurda (o comunque assurda abbastanza per confutare l’argomento che vi ha portato) da chi abbia presente il modo in cui è possibile costruire un’etica che è a pieno titolo tale e, al contempo, è a pieno titolo un’etica dell’amore: e per esempio il modo in cui l’ha fatto Spinoza. Ma la nozione di amore con cui lavora Spinoza è tale per cui si dice che noi amiamo qualcuno o qualcosa perché ci fa del bene e perché noi comprendiamo che ci fa del bene, e tanto di più quanto meglio ci fa e quanto meglio comprendiamo in che modo; mentre io appunto vorrei evitare di allontanare la nozione di amore che è qui in oggetto da quella, romanticamente connotata, con cui siamo partiti.
Quanto vorrei sostenere è proprio che nei rapporti con coloro a cui siamo più strettamente legati vige un regime relazionale non improntato alla legalità anodina che si esprime nell’imperativo categorico, bensì dominato dal cozzare appassionato e condizionatissimo di soggetti che agiscono non secondo il dovere della perfezione, ma secondo l’amore dell’imperfezione. L’amore come epifenomeno del bisogno, e non come correlato del dovere, l’amore insomma come fatto viscerale, configura una situazione di incomunicabilità tra i soggetti coinvolti, di costante violenza reciproca; e, appunto, l’amore, nel senso in cui qui è inteso, cioè nel senso proprio, non può essere che questo. Tentare la strada filosofica che porta alla razionalizzazione dell’amore comporta un unico rischio, quello della razionalizzazione dell’amore; e questo rischio è ovviamente il rischio della cancellazione dell’amore come tale.
Così Kant ora consacra il comandamento evangelico dell’amore reciproco come la più compatta e la più pura delle possibili formulazioni della legge morale[2], ma nel farlo svuota consapevolmente il verbo “amare”, col semplice coniugarlo all’imperativo, della sua natura tormentosa e struggente, lo svuota di ogni ricchezza, complessità e valore sentimentale, e quindi lo svuota di tutto.
Così, ora, egli riconosce che, dato il carattere reificante del rapporto sessuale, cioè dato che «l’uso naturale che si fa degli organi sessuali dell’altro è un “godimento” che in parte coinvolge anche l’altro» e che «in questo atto un essere umano trasforma se stesso in cosa, ciò che è in contrasto con il diritto dell’umanità nella sua propria persona», di conseguenza una relazione sessuale conforme alla legge morale «è possibile soltanto a condizione che, venendo una delle persone acquista dall’altra “al pari di una cosa”, allo stesso modo questa a sua volta acquisisca l’altra; così facendo, infatti, essa si ritrova e ristabilisce la sua personalità. Ma l’acquisizione di una delle parti dell’essere umano è nello stesso tempo l’acquisizione dell’intera persona, perché questa costituisce un’unità assoluta; di conseguenza, l’offrire e il ricevere godimento sessuale non soltanto è ammissibile a condizione del matrimonio, ma è possibile “esclusivamente” a questa condizione»[3]; tuttavia in questa mutualizzazione della violenza si trova a fatica, o persino non si trova affatto, una moralizzazione della sessualità; e proprio per questo, malgrado certo le intenzioni di Kant, vi si può trovare salvata la possibilità dell’amore.
La transizione di cui parlavo in apertura dunque, quella tra il rapporto distaccato e cortese con cui si può iniziare e quello ardentemente e ottusamente possessivo con cui si può finire, è, se si dà davvero, la transizione tra un’etica e una non-etica. Dicendo «se si dà davvero» intendo che può certamente, ad esempio, prodursi un corteggiamento, o celebrarsi un matrimonio, preceduto e seguito dallo stesso regime di prudente reciproco rispetto, e che questo però conduce, come suo esito, a qualcosa che non può chiamarsi “amore”, almeno in un senso importante di questo termine. Mentre se amore, in questo senso del termine, realmente si dà, allora si dà realmente una transizione tra un prima e un dopo che differiscono tra loro appunto come un’etica e una non-etica. Se, insomma, l’amore non va appiattito, salvo snaturarlo, sulla moralità, allora dovremmo forse esortarci l’un l’altro altrimenti: «Non amare il prossimo tuo, rispettalo».
Note
[1] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2008, p. 123.
[2] Cfr I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2010, p. 181.
[3] I. Kant, Metafisica dei costumi, a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2006, pp. 161-163.