Legame d’attrazione fra matrimoni e conquiste
Oggigiorno il minimo spostamento di un confine amministrativo o nazionale si configura come un’impresa infinitamente difficile o addirittura impossibile per qualsivoglia partito, gruppo o leader. Si pensi anche solo alle estreme difficoltà che incontrano gli inquadramenti geopolitici di piccole realtà, per quanto molto diverse, come Puerto Rico e la Crimea, sospese da troppo tempo tra due diverse possibili identità nazionali. Questo fatto è dato da almeno due ordini di ragioni significative: quella economica e quella morale.
La prima è certamente la più importante e consiste essenzialmente nel fatto che l’economia globale contemporanea necessita di stabilità amministrativa. La generale condanna, da parte delle autorità internazionali, nei confronti di qualsiasi modifica degli assetti territoriali ha ormai ben poco a che fare con l’imperialismo. Non a caso è difficile che gli odierni proponenti di un cambiamento da effettuarsi in un assetto territoriale non alleghino al loro progetto anche la promulgazione di un sistema economico radicalmente diverso da quello attualmente dominante, spesso commettendo l’errore di guardare più alle strutture risultate efficaci nei contesti storici del passato che a quelle immaginabili per un verosimile futuro.
La seconda consiste invece nel tema dell’appartenenza, del radicamento di un gruppo sociale al proprio contesto territoriale natio e dell’attaccamento ideologico a una visione emotivamente partecipata di concetti romantici e rinascimentali quali l’amor patrio.
Facendo un salto nel lontano passato dell’Europa, da dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente difficilmente troveremo grande interesse da parte degli uomini di potere per la questione morale dell’appartenenza, se non nel caso in cui a qualcuno di loro tornasse utile strumentalizzare movimenti sorti dal basso su quel genere di presupposti che sono autentici solo nella loro base popolare. Invece, per quanto attiene alle ragioni di ordine economico, bisogna sottolineare che l’organizzazione del lavoro antica e medievale, essenzialmente agricola e servile, non era influenzata dalle vicissitudini politiche tanto quanto quella odierna. Essa era cristallizzata in strutture ben più chiuse e rigide di quelle attuali, pertanto risultava relativamente poco influenzabile anche dai più repentini cambi di vertice.
Era proprio la staticità delle forme, l’inalterabilità degli assetti attinenti all’amministrazione, alla produzione e al mercato a consentire l’estrema fluidità delle appartenenze, il dinamismo delle guerre e il rapido avvicendamento degli amministratori. La minore dipendenza tra politica ed economia, quindi, consentiva più mutamenti politici, facendoli scivolare su uno stabile tessuto sociale, ma non li rendeva affatto irrilevanti per la vita delle persone. Essi modificavano molte delle opportunità che si poteva sperare di cogliere nella propria vita e soprattutto modificavano, spesso imprevedibilmente, la libertà di movimento e la prossimità ai teatri di guerra che la mancanza di vincoli economici simili a quelli coevi rendeva tremendamente fluttuanti e numerosi.
In tutte le economie antiche un elemento di enorme tensione sociale era dato da quell’aspetto della proprietà privata che è l’ereditarietà dei
beni, la loro trasmissibilità ed elargibilità. Si pensi al disastro che fu, per il Sacro Romano Impero, il tormentato processo di successione voluto da Ludovico il Pio e la conseguente disgregazione delle conquiste di Carlo Magno. Per tutti i regni Merovingi e Carolingi fu sempre un rischio esiziale quello del passaggio di consegne generazionale. Era stato Clodoveo I, con la promulgazione della legge salica intorno 503 d.C., a stabilire che le norme del diritto privato fossero applicate a tutti i livelli della società, ivi compreso quello reale. Nel 511, quindi, il suo stesso regno era stato diviso in quattro parti. Se re Carlo aveva saputo intuire l’importanza di forzare questa tradizione per evitare un disastro e ne aveva avuto la capacità, Ludovico non ne fu minimamente in grado e ciò condusse, con la sua morte nell’840, alla guerra civile e a quell’indebolimento dell’Impero che avrebbe portato all’abdicazione di Carlo il Grosso e alla fine del sogno carolingio, nell’887. Il cavalierato e la carriera ecclesiastica si configuravano spesso come vie per ridurre la frammentazione, ma da sole avrebbero potuto soltanto frenare un processo destinato ad aggravarsi costantemente.
Era necessaria una controforza unitiva ed essa derivò da due elementi: la morte e i matrimoni. C’è un che di beffardo in questa prossimità, ma tant’è. Chi moriva senza eredi rendeva possibili le riunificazioni delle proprietà; così anche chi si sposava, perché poteva portare in dote un fondo da unire a un altro. Questo è precisamente il motivo per cui la pressoché totalità dei matrimoni del passato, anche non lontano, erano combinati o comunque d’interesse. L’ideale dell’amore comparve solo insieme ai romanzi e riguardava innanzitutto proprio quei cavalieri che miravano a sposare donne di rango al fine di edificare un proprio nuovo ceppo nobiliare da inserire nell’alta società dell’epoca. Essi vivevano l’idealizzazione di queste nobildonne, che abitavano le case dei signori, come una sorta di consolazione poetica al lungo tempo tecnico che esse dovevano prendersi per misurare il loro valore e le loro effettive possibilità di scalare i ranghi sociali. Questa consolazione veniva pubblicamente offerta loro dai cantori, insieme a quella di vedere le proprie gesta belliche immortalate nei poemi cavallereschi. Per questo il filosofo e saggista Denis de Rougemont, nel suo celebre L’amour et l’Occident, si è spinto a dire che l’amore non è altro che «un’invenzione francese del XII secolo».
In fatto di matrimoni unitivi conviene ricordare quello fondamentale di Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia, Los Reyes Católicos, per dirla con papa Alessandro VI. Celebrato nel 1469, fu praticamente l’atto di nascita della Spagna moderna e le rese possibile intraprendere quella politica marittima aggressiva che si rivelò in grado di renderla una grande potenza coloniale, capace di scalzare l’egemonia portoghese occupando inizialmente le Canarie e quindi realizzando la conquista del Nuovo Mondo, scoperto durante il regno di Ferdinando e Isabella dalla spedizione che essi stessi avevano finanziato.
Anche lasciando da parte le teste coronate e i grandi rivolgimenti storici, le piccole realtà feudali medievali erano costantemente trascinate in un vortice di spostamenti ideali da una sfera di influenza a un’altra, da un principio di appartenenza a uno magari antitetico, e tuttavia la richiesta di lealtà per tutti coloro che vivevano passivamente questi processi era sempre assoluta. I territori erano ambienti politicamente viandanti. Sebbene i princìpi dell’amministrazione feudale tendessero a rimanere sempre uguali a se stessi, i possedimenti seguivano le intrecciate vicissitudini delle famiglie potenti, portando con sé un’umanità che dalla terra non poteva svincolarsi senza scomparire. In un contesto del genere la costruzione di un’identità di popolo sembra assai ardua e questo spiega alcuni aspetti essenziali della nostra società, come il fatto che il tasso di identificazione dei cittadini con la propria nazionalità sia determinato in buona parte da quanto tempo il centralismo delle grandi monarchie nazionali abbia impiegato a emergere dalle fluide trame del feudalesimo, da quanto elevato fosse il tasso di frammentazione in un certo territorio. Prima che in alcune aree queste realtà prendessero forza, non è difficile capire perché la gente fosse più agevolata nell’identificarsi con qualcosa di minuscolo, come una singola comunità parrocchiale o con qualcosa di astrattamente universale, come la Chiesa o l’Impero. Tra linee di confine che scivolavano sopra i loro corpi, i contadini cercavano in questi orizzonti la fissità di un’isola nella tempesta, qualcosa di immobile in cui rifugiarsi tra un viaggio statico e l’altro.