L’amore di chi legge e non di chi scrive nella poesia di John Donne
Il mio approccio a John Donne, poeta metafisico inglese vissuto tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, è stato poco attento in passato: spesso certi autori bisogna affrontarli in determinati momenti, forti di una certa inclinazione psico-fisica. Anche i libri maturano.
Virginia Woolf si chiese in un saggio come fosse possibile vedere sulla metropolitana ancora letto e amato questo poeta vissuto tre secoli prima: «La prima qualità con cui ci avvince la sua poesia […] è l’esplosione con cui irrompe nel discorso […] egli balza nella poesia per la via più breve. In una frase si consuma ogni preparazione»[1]. Lo stile poetico donniano è caratterizzato infatti dal wit, l’ingegno, che si manifesta ed espande nella scrittura e stesura di un «imprevisto collegamento di idee, configurazioni semantiche e immagini, contrapposte o lontane o imprevedibili»[2].
Nell’esagramma 31 si legge che «l’uomo forte si abbassa al di sotto della fanciulla che è debole e le usa riguardo»; questo processo è esemplificato nella poesia cortese da nobili eroi che impazziscono, piangono, si disperano per amore, sospendendo il loro eroismo, tutto per ottenere che la donna amata ricambi. Il principio debole si fa più forte, soverchia chi normalmente è dominante, generando squilibrio e quindi dolore. Tutto ciò è volto a ovviare, limitare e insegnare i limiti dell’amore. Spesso, infatti, si tratta di amori non corrisposti, per donne già sposate, donne che non possono essere di fatto amanti e che, quando lo diventano, mettono a rischio la vita del cavaliere stesso. Ecco, tutto questo in Donne non c’è. La poesia di Donne si situa sulla scia dello stilnovismo e del petrarchismo, ne riprende il tracciato, ma – come scrisse bene T. S. Eliot – la poesia di Donne si collega direttamente al simbolismo[3].
La poesia di Donne è una poesia estemporanea, concettuale e complessa, spesso filosofica; ma soprattutto reale, attenta a quello che circonda il poeta. In particolare, è una poesia che non fatica a parlare della carnalità e della sua importanza nel rapporto umano: Donne riesce ad affrontare con una chiara solidità filosofica e teoretica il sesso quale parte fondamentale dell’amore, creando nelle sue poesie giovanili non un canzoniere formale tornito di figure retoriche e mezzi espressivi canonici; il ritmo stesso, la struttura del testo, le parole utilizzate non sono solo variegate; tutto l’insieme, anche negli argomenti, costruisce un’idea di poesia radicalmente diversa e innovativa rispetto alla sua epoca, distaccandosi dai vari autori a lui coevi. La sua fu un’esplorazione attenta di tutta la realtà femminile; egli creò un monolite in cui è inciso come un bassorilievo l’amore in tutte le sue forme. Donne non si volge alla complessità dell’universo: egli guarda al particolare, al dettaglio, perché in esso trova la meraviglia della realtà, in esso riesce a costruire una poetica caratterizzata dalla verità di un’epoca. E di una natura, quella umana. Anche per questo la sua voce, rispetto ai suoi coevi, è rimasta potente. John Donne parla quindi di corteggiamento, amore, sesso, in una maniera estremamente innovativa. Ci sono in particolare dei versi, che riprendono le aubade, tradizione poetica risalente ai provenzali del XII secolo, in cui il poeta spoglia della retorica cortese questo genere e lo innova dandogli una spinta carnale. La poesia si intitola Break of Day.
La luce non ha lingua, ma è tutta occhi;
se potesse parlare come spiare,
questo sarebbe il peggio che potrebbe dire,
che, stando bene, io volentieri resterei,
e tanto amo il mio cuore e onore
che via da lui, che ha entrambi, non vorrei andare.
Devono gli affari portarti via di qui?
Oh, questa è la peggiore malattia dell’amore;
i poveri, i volgari, gli infedeli sanno accogliere
l’amore, ma non gli affaccendati.
Colui che ha affari, e fa all’amore, commette
Lo stesso torto di uno sposato che si mette a corteggiare.[4]
Da notare è la considerazione finale: colui che è affaccendato, che lavora, non sa amare, non ne ha il tempo, perché l’amore non è un desiderio lontano, un mortale sospiro: l’amore è sessualità, corporeità, piacere. Solo l’ultimo, il povero, l’infedele, il volgare ne ha quindi il tempo: inverte la concezione comune per cui chi ama è nobile, alto, “affaccendato”, perché destituisce di senso l’amore come aspirazione alla santità. Quindi il cavaliere, che già si abbassava a struggersi e disperarsi per amore, ora è totalmente spogliato, nudo, pronto al rapporto sessuale: Donne non solo mostra con un’ironia sprezzante che anche chi non è nobile ama, ma arriva ad affermare che l’uomo semplice è l’unico a saper davvero amare.
In un’epoca di radicale cambiamento, in cui la scienza comincia a fare i primi passi verso la messa in dubbio della centralità dell’uomo, in cui il cosmo comincia ad avere un senso di terrore e infinità, John Donne ricentra la realtà, la ricalibra secondo uno schema poetico in cui il mondo non deve diventare minaccia, ma occasione di costruire un grande gioco in cui il protagonista torna a essere l’uomo. Non l’eroe, bensì l’uomo comune e la sua sessualità. John Donne ha così costruito in parte la poesia contemporanea. Ne ha tracciato le premesse, tessendo quel filo comune di cui diceva Eliot, perché ha saputo guardare oltre il suo contemporaneo, con l’idea che per avvicinare il lettore – la scrittura e la lettura sono un rapporto amoroso – bisogna sussurrargli che il poeta non è un essere superiore che parla di grandi modelli, ma un uomo. Un uomo come chi legge e che in quanto tale capisce quanto sia varia e bella e tragica l’umanità; e come si può escludere la sessualità? Il poeta quindi si fa debole due volte, con la donna che ama e col lettore, con cui avvia un dialogo intimo. Tant’è che il tu diventa spesso indirizzario della sua poesia: il lettore viene coinvolto, introdotto nel suo mondo.
Altro tema, correlato con la versatilità della poetica donniana, è l’esplorazione, sempre immersa nell’erotismo e nella sensualità:
Oh, mia America! mia Terra-Nova, mio regno,
tanto più sicuro se presidiato da un sol’uomo,
mia miniera di pietre preziose, mio Impero,
quanto beato io sono in questo mio scoprire te![5]
Particolare è il riferimento alle nuove terre, all’America come territorio sessuale e sensuale, alla terra come nudità. Una visione talmente potente che è arrivata persino nella musica italiana con Gianna Nannini e la sua L’America.
Donne, dunque, non ebbe paura in età giovanile di affrontare in tutte le sue sfumature la sessualità, svelandone i più acuti segreti e creando un diario di seduzione con riadattamenti della poesia tradizionale e riprese dall’antica poesia di Ovidio (in particolare dall’Ars amatoria). E questi aspetti vengono concretizzati in testi semplici, accessibili, ma al contempo complessi per le tematiche affrontate, come ad esempio A Valediction: of the Booke, dove s’immagina che la sua amata possa creare una Bibbia dell’amore a partire dalle sue lettere, in cui è incluso tutto, anche la carnalità:
Qui i teologi dell’Amore […]
[…] potranno trovare tutto quanto van cercando.
Sia che preferiscano l’astratto amore spirituale,
[…]
sia che, restii a stuzzicare così
l’infermità della fede, scelgano
qualcosa che possono vedere e usare.[6]
Tutto ciò rientra nel percorso di un poeta che fa dell’esplosività, per ritornare alla Woolf, uno stile, un poeta in cui il wit, l’ingegno, è qualcosa di più della semplice volontà di stupire (fatta propria dal barocco), bensì un’elevazione alla massima potenza del linguaggio poetico, piegato anche metricamente al discorso: Donne prende il lettore e lo porta per mano nella realtà, illustrandogliela in tutte le sue pieghe e rughe.
La Woolf scrive che «non aveva perduto l’incorreggibile curiosità della sua giovinezza. La tentazione di dire la verità sfidando il mondo perfino quando aveva preso tutto quello che il mondo aveva da dare, era ancora viva dentro di lui»[7].
È vero. Questa tentazione di dire la verità manca oggi in poesia e credo che molta parte dell’assenza di lettori sia dovuta al fatto che non si fa più poesia per i lettori, ma solo per i poeti: manca una prospettiva di realtà, un tratto chiaro e netto che definisca con schiettezza tutte le declinazioni, anche le più torbide, della realtà. Donne era ed è amato e letto perché non parla ai poeti, ma parla a «i poveri, i volgari, gli infedeli». Disprezzando l’ipocrisia della sua contemporaneità. La seduzione in poesia è necessaria affinché il lettore non sia sempre e costantemente sfidato a comprendere, ma possa capire effettivamente quel che è scritto, così da essere portato a leggere e a lasciarsi andare in un mondo fatto di realtà, in tutta la sua bellezza e potenza. In un mondo che parla di chi legge e non di chi scrive.
Note
[1] V. Woolf, “John Donne tre secoli dopo”, in J. Donne, Poesie sacre e profane, Feltrinelli, Milano 1995, p. 7.
[2] A. Serpieri, S. Bigliazzi, “Introduzione”, in J. Donne, Poesie, BUR, Milano 2009, p. 29.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 204.
[5] Ivi, p. 587.
[6] Ivi, p. 235.
[7] V. Woolf, “John Donne tre secoli dopo”, cit., p. 22.