L’imminente fine di una delle serie televisive più rilevanti degli ultimi anni si propone come occasione di critica dell’opera d’arte secondo la riflessione di Walter Benjamin
Al momento della stesura di questo articolo è in corso la messa in onda della sesta e ultima stagione di una serie televisiva ai più sconosciuta, in particolar modo qui in Italia: ci si riferisce al dramma storico The Americans. Lo show che segue le vicende di Elizabeth e Philip Jennings, una coppia di spie russe in America nel corso degli anni Ottanta, è stato acclamato fin dall’inizio dai critici, ma non solo non ha raggiunto gli invidiabili ratings dei programmi più commerciali: gli è anche rimasto precluso l’accesso all’invidiato harem della cultura popolare, dove sono invece penetrate esperienze altrettanto elogiate quali Breaking Bad e Mad Men.
Oltre alla mancanza di una premessa particolarmente accattivante per lo spettatore (un high concept, come dicono gli addetti ai lavori) e di un tema sufficientemente familiare alla tradizione americana (anzi: qui le prospettive sono rovesciate e si mostra in modo equilibrato e scevro da ogni tentazione ideologica un punto di vista “altro”, quello del nemico sovietico!) vi è un altro motivo che a parere di chi scrive ha costretto The Americans a un’esistenza televisiva poco gloriosa: la sua quasi totale assenza di spettacolarità. Gli elementi tecnici concorrono a plasmare un’immagine neutra, modesta, ben poco cinematografica: per dirne un paio, la macchina da presa si sminuisce in movimenti tanto naturali quanto quelli che compirebbe il nostro occhio; e il montaggio la asseconda, secondo una logica d’invisibilità che risale agli albori del cinema e che è qui rielaborata con grande efficacia. Ma è indubbiamente la sceneggiatura a occupare in questo senso la parte del leone. Deliberatamente essa sceglie di concentrarsi sui gesti di una quotidianità che cela e avvolge i segreti piani dei Jennings, descrivendo l’ordinario di due vite inconsuete, o meglio setacciando la quotidianità per ricavarne preziose scaglie di straordinario; raramente lo spettatore è ripagato della sua attenzione con una scena davvero memorabile. Molto più spesso assistiamo a cene in famiglia in cui si parla dell’agenzia turistica gestita come lavoro di copertura dai due protagonisti, o dei risultati scolastici dei figli; e anche nel generoso tempo dedicato alle operazioni di spionaggio, chi si illude di trovarvi scene d’azione mozzafiato a profusione deve accontentarsi piuttosto dei meticolosi pedinamenti di Philip ed Elizabeth o del loro trasformarsi, anche fisicamente, in identità nuove che s’insinuano nella vita privata di chi conosce informazioni utili alla madrepatria.
Insomma, lo spettatore è privato del senso di spettacolo e intrattenimento offerto non solo da Game of Thrones o da una comedy qualunque, ma anche da quello previsto in molti altri drama. Pare che a rimanere impresso nella retina non sia altro che l’immagine dei due protagonisti – figure tra l’altro evidenziate nei loro tratti sulla carta meno affascinanti. Invece è proprio il contrario: la grandezza di The Americans risiede nella sua promessa di poterci finalmente rapportare a personaggi complessi e stratificati non dal distaccato punto di vista della poltrona di casa nostra, ma da quello attivo e incluso di chi siede con i piedi sul divano di casa Jennings. Il senso di intimità che ci è rivelato in forma diretta attraverso l’empatia di uno sguardo o di un gesto qualunque tra Philip ed Elizabeth è non meno profondo di quello più consueto che lega lo spettatore alla sua serie televisiva. In The Americans l’indagine psicologica dei suoi personaggi è portata a livelli magnifici ed è sempre illustrata attraverso la preziosa lente dell’esistenza quotidiana.
Proprio questo aspetto sembra richiedere, per la sua comprensione, l’impiego di una riflessione attenta e ostile a ogni tentativo di banalizzazione. Una strategia intrigante in questo senso è quella adoperata da Walter Benjamin riguardo al ruolo della critica dell’opera d’arte nel saggio su Le affinità elettive[1]. Esso inizia proprio con una sicura distinzione tra critica e commentario: la prima «cerca il contenuto di verità di un’opera d’arte», il secondo «il suo contenuto reale»[2]. In realtà i due concetti sono legati e più precisamente il contenuto reale corrisponde allo strato superficiale dell’opera, quello immediatamente decifrabile dal fruitore; invece «il contenuto di verità si rivela come il nocciolo stesso del contenuto reale»[3], e l’agitarsi nell’opera di forze mitiche e oscure contribuisce a conservare il suo carattere enigmatico. Per Benjamin si tratta in fondo di evidenziare il rapporto tra mito e verità, «rapporto di esclusione reciproca»; la conoscenza del primo, in quanto fonte di «radicale, assoluta indifferenza nei confronti della verità»[4] è paradossalmente l’unico modo di raggiungimento della seconda. La comprensione del mito deve quindi fungere da passaggio obbligato e intermedio per chi vuole incontrare la verità e l’essenza dell’opera. La critica cercherebbe di corteggiare il segreto custodito nel prodotto artistico, riserbo tanto più affascinante poiché la caratteristica stessa di ogni opera sta nella sua «indisvelabilità»: in essa «l’involucro è in definitiva essenziale», poiché non è l’incarto «superfluo di cose in se stesse, ma quello necessario di cose per noi»[5].
Proviamo ad applicare l’insegnamento beniaminiano al nostro caso. Proprio perché non è mai nascosto bensì messo continuamente in scena, il rapporto coniugale dei Jennings corrisponderebbe al contenuto reale dell’opera, lo strato superficiale ma necessario nel quale si assiste alternativamente a scontri e accordi, punti di vista condivisi e opposti. E il contenuto di verità? Esso si celerebbe invece nel rapporto storico che gli individui intrattengono, volenti o nolenti, con il proprio tempo. La Storia corteggia con violenza i Jennings, ponendosi come arbitro e giudice necessario in ogni loro scelta personale, influenzandone movimenti e credenze; s’incarna nelle due ideologie opposte offerte da Stati Uniti e Unione Sovietica e si fa modello plurale di pensiero ed esistenza che seduce alternativamente Philip, sempre più sensibile al richiamo americano, ed Elizabeth, almeno apparentemente più dogmatica e fedele agli ideali della madrepatria, mettendone in crisi i rapporti. Il contenuto di verità consiste forse nella catena della Storia che lega a sé tutti i personaggi, asservendoli ai voleri di un Geist alto e incomprensibile; gli individui vi si adeguano inconsapevolmente e la quotidianità meccanicamente ripetuta non è altro che un nascondiglio. Il rivo profondo che fa di The Americans un’eccezione inconsueta nel panorama televisivo è il rendere i suoi personaggi attori di attori, messi in scena a suo piacimento da un disegno storico implacabile e poco interessato alle sorti umane.
È evidente come questa non sia l’unica chiave interpretativa della serie. Com’è tipico di Benjamin, l’operazione proposta gode di infinito fascino poetico e soffre allo stesso tempo della mancanza di un rigoroso e definito processo teoretico di ricerca. Tuttavia l’idea di applicare la distinzione tra contenuto reale e contenuto di verità – anche a costo di banalizzare e non poco la complessità originaria del pensiero beniaminiano – alle opere della contemporaneità è stimolante. Se non altro perché ci mostra la presenza di molteplici livelli all’interno di un prodotto culturale; ci costringe a interrogarci non solo circa la portata e le potenzialità della critica al giorno d’oggi, ma addirittura mette in discussione la sua utilità e il suo status. La speranza sottintesa è quella che nell’esercizio di una critica sempre più severa e penetrante si possano ritrovare e far emergere i temi che davvero governano l’opera, garantendo al pubblico la comprensione più importante: quella del senso originario che rende l’opera vivente e, ben più importante, vivificante nei confronti di chi la fruisce.
Note
[1] Walter Benjamin, “Le affinità elettive”, in Id., Angelus Novus, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 2014.
[2] Ivi, p. 163.
[3] Ivi, p. 166.
[4] Ivi, pp. 201-202.
[5] Ivi, p. 236.