Cibi, vino, flirt e amori ai tempi dei canottieri
In francese esiste un’espressione terribilmente bella per dire che si è innamorati: “vedere le foglie al rovescio”. Perché quando gli amanti si sdraiano l’uno accanto all’altro nel verde, e alzano gli occhi in alto, è la parte di sotto delle foglie che si ritrovano a contemplare insieme.
Nel 1880 il posto preferito dei parigini per andare a innamorarsi era l’isolotto sulla Senna a Chatou, a trenta minuti di treno dalla città. Nelle domeniche di sole venivano qui, noleggiavano una barca e si lasciavano scivolare sull’acqua fra i canottieri in gara e sotto un cielo di fronde al contrario.
Ci veniva sempre anche Pierre-Auguste Renoir, innamorato della luce, della vita, della vie moderne. Si fermava al ristorante dei Fournaise e forse imbrattava un po’ la tavola con le dita perennemente sporche di pittura a olio. E ormai il ristorante si era riempito di quadri, per tutte le volte che non era riuscito a pagare il pranzo in denaro. Renoir aveva ormai trentotto anni e la sua carriera non procedeva un granché. Tre anni prima aveva presentato una tela grande e ambiziosa alla terza mostra degli Impressionisti, il Bal au Moulin de la Galette, ma alla gente non erano piaciute tutte quelle ombre viola sul volto delle persone. Solo il suo amico Gustave Caillebotte sembrava capire che la luce, filtrando attraverso gli alberi, faceva davvero quell’effetto lì, e che le ombre non sono mai davvero nere, e che quella nuova maniera di dipingere coglieva davvero l’essenza del movimento e dell’istante… Alla fine il quadro l’aveva comprato lui. Caillebotte era fortunato a potersi permettere di dipingere quello che voleva e come voleva, e magari scegliere di ritrarre dei miseri raschiatori di parquet, senza preoccuparsi di chi mai avrebbe acquistato un quadro simile. Renoir invece era sempre costretto a rincorrere dame e signori nei loro salotti e a corteggiarli per estorcere loro la promessa che avrebbero commissionato un ritratto. Negli ultimi tempi, a parte qualche fuga a Chatou per rigustare il sapore dell’en plein air, la sua vita artistica era stata costretta in questa morsa desolante.
Però, se solo avesse avuto modo di dedicarsi a un nuovo progetto importante, che rappresentasse appieno la vie moderne… Émile Zola aveva detto provocatoriamente che gli Impressionisti fino ad allora avevano solo prodotto dei balbettii: Renoir gli avrebbe risposto con un linguaggio compiuto, catturando il vero spirito del tempo. Sì, avrebbe dipinto il mondo giovane, veloce, fuggevole, spensierato, romantico della Parigi contemporanea come aveva fatto nel Moulin de la Galette, anzi meglio. Avrebbe lavorato a una tela più grande, in qualche modo più classica, con delle figure più solide, immerse in una luce più calda, proprio come quella che gli baciava la pelle sulla terrazza dei Fournaise. Perché no, magari avrebbe potuto ambientare la scena proprio lì, a Chatou!
Ma come fare? Tante figure erano tanti modelli da pagare e una scena complessa significava anche tante sedute di posa… Be’, innanzitutto su Caillebotte poteva sempre contare. E poi di sicuro pure Alphonsine e Alphonse, i figli del signor Fournaise, avrebbero accettato di posare per lui. Forse l’impresa non era del tutto impossibile.
Sulla terrazza della Maison Fournaise, domenica dopo domenica, si raccolse attorno alla tavola un branco di tredici bohémiens innamorati della luce e della vita come lui. C’erano tre attrici, la sua antica musa Jeanne Samary, l’affascinante modella di Manet e Degas Ellen Andrée e una semi-sconosciuta e civettuola Angèle Legault; c’erano il critico e collezionista d’arte Charles Ephrussi, ricco ebreo di origine russa, e il suo segretario personale, il poeta simbolista mezzo uruguayano Jules Laforgue; erano stati tirati in mezzo anche un giornalista satirico italiano di nome Antonio Maggiolo, il mecenate Pierre Lestringuez detto “l’ipnotizzatore” per la sua fascinazione per l’occultismo, l’avventuriero e instancabile rubacuori Paul Lhôte e il barone Raoul Barbier, appena tornato dal Vietnam; c’era naturalmente Caillebotte e c’erano anche i due ragazzi Fournaise. E poi, si era aggiunta una ragazzina dai capelli rossi e il nasino all’insù, gli occhi vispi e un sorriso disarmante: si chiamava Aline Charigot e si era trasferita da poco a Parigi dalla campagna per imparare a fare la sarta. Renoir l’aveva conosciuta alla crémerie di Madame Camille, a Montmartre, e ne era rimasto folgorato.
Complici l’atmosfera dorata e festosa frusciante di foglie, ciarlii e risate, i cibi squisiti e i vini portati in tavola da Alphonsine e le canoe – quelle galeotte! – messe a noleggio da Alphonse, la terrazza fece presto a diventare un gran teatro del flirt. Con tocchi fini e precisi Renoir ci restituisce Lestringuez e Lhôte, sullo sfondo, che corteggiano in modo serrato Jeanne, mentre lei si porta le mani finemente guantate sulle orecchie, come per non sentire il mare di sciocchezze che quei due le stanno raccontando. Alphonsine, appoggiata sulla balaustra con aria sognante, è rapita dal barone Barbier; Maggiolo, più avanti, si trattiene a stento dall’avventarsi su Angèle. Aline, invece, ha interessi solo per un piccolo amico peloso; e, tutta divertita, coccola il cagnolino che tiene fra le mani senza accorgersi che gli occhi e i pennelli del pittore stanno accarezzando le pieghe di velluto del suo abito blu, le sue guance rosee, le sue labbra a forma di bacio.
Caillebotte, seduto a cavallo della sedia in primo piano e abbigliato alla marinara, è l’unico che non si lascia deconcentrare da tutti questi broccolaggi. Solo l’Arte in questo momento riesce a produrre su di lui un’attrazione travolgente, e per l’Arte compie lo sforzo immane di mantenere i muscoli tesi in quella posizione per ore. Così, mentre tutti gli altri partecipano alla leggerezza della composizione, Gustave si assume il compito di esserne il peso che la bilancia a destra con il bianco splendente della sua canotta.
Possiamo immaginare che per circa otto settimane, mentre Auguste portava avanti il quadro, passarono su quella tavola tutte le specialità della maison: prosciutti d’anatra, polli al Madera, fritture di pesce, dessert allo sciroppo di vaniglia e soffici pasticcini di pasta sfoglia e fiumi di Bordeaux, Bourgogne, Beaujolais. Ma noi non possiamo vederne che i postumi. Sulla tovaglia stropicciata rimangono abbandonati una fruttiera colma di pere, fichi e grappoli d’uva un po’ in anticipo sulla stagione, bicchieri scintillanti ormai svuotati, un mucchietto di briciole di pane e poche bottiglie di rosso e una botticella di cognac miracolosamente scampate all’impetuosa joie de vivre del gruppo di amici. Incantati e sedotti, non possiamo fare a meno di immaginarci anche noi lì, ebbri di quei profumi fragranti, e di farci prendere da una tremenda nostalgia per un’epoca che non abbiamo mai vissuto.
Quando la tela fu finalmente completata e presentata alla settima mostra degli Impressionisti nel 1882 fu un successo completo. I critici ne lodarono la freschezza del colore, la disinvoltura dei gesti, le volumetrie ben definite (che quasi quasi un pittore di questi moderni sapesse disegnare?). La colazione dei canottieri sarà ricordata da tutti come un capolavoro ed è oggi uno dei quadri più amati, ammirati, citati.
Ma in una storia come si deve non c’è un vero lieto fine se non c’è anche un matrimonio, giusto? Solo che bisognerà aspettare una decina d’anni perché Auguste, finalmente, si decidesse a chiederglielo. E nel 1890, finalmente, Aline rispose: sì, lo voglio.