Resistere alla minorazione: il ruolo dell’arte indigena
La terra deve prima esistere come concetto mentale.
Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste.[1]
Esistenza e canto, esistenza e arte. Alcune lingue indigene sanciscono espressamente l’equivalenza: presso i Galibi del Sudamerica, ad esempio, upa significa al tempo stesso “io danzo” e “io esisto”[2]. In fin dei conti, l’arte indigena, nella sua versione più autentica, non è mera rappresentazione, ma esprime una funzione performativa: «Gli Antenati, che avevano creato il mondo, cantandolo […] erano stati poeti nel significato originario di poiesis, e cioè “creazione”»[3]. Nell’intelaiatura caratteristica delle società ctonie, la performance culturale è soprattutto medium tra realtà e sacro: la sua scansione temporale «traspone realtà eterne nei ritmi del mondo», mentre i suoi simboli «traducono immagini primordiali in espressioni che possono essere viste e ascoltate»[4]. Cosa accade, tuttavia, quando, da un contesto inter-etnico, la performance è inglobata nella dialettica della negoziazione tra culture?
Australia, 1971. Milirrpum v. Nabalco. La comunità Yolngu del North East Arnhem Land innesca la prima, storica, rivendicazione territoriale indigena: Yirkkala è luogo di esplorazioni minerarie, e le trivelle stanno disturbando il sonno degli Antenati. In questo scenario, l’antropologo diviene expert witness: William Stanner incontra i clan coinvolti, alla ricerca di un “atto di proprietà” nativo che giustifichi la discussione in sede giudiziale. Mesi dopo, di fronte ai colleghi di Canberra, racconterà di come gli Yolngu, dopo averlo condotto nella giungla, gli avessero mostrato i sacri rangga, legni decorati, emblemi del clan ed effigi degli antenati: «Now you understand». Scrutando i rangga, Stanner osservava in realtà “atti di proprietà” inerenti al territorio di Yirkkala: «I could not but understand»[5].
La Corte suprema rigettò tuttavia l’analogia tra rangga e atti di proprietà proposta da Stanner, decretando la natura non-proprietaria del rapporto normativo che lega Yolngu e territorio[6].
A prescindere dall’esito della strategia processuale adottata dagli Yolngu, lo spaesamento dell’occidentale è evidente. Come possono legni decorati costituire atti di proprietà? L’analogia (e la correlata terminologia) risultava in effetti “nuova” anche per i membri della comunità Yolngu. Tuttavia, l’accostamento conosceva alcuni precedenti nell’ambito della tradizione etnografica australiana: nel 1962, Mervyn Meggit aveva infatti descritto gli oggetti sacri dei Walbiri (Northern Territory) come «a part of community’s title deeds on its land»[7]. Anche John von Sturmer riferiva che gli Aranda (Central Australia) utilizzavano «as a matter of course» l’espressione inglese “title deeds”: la caverna che custodiva i dipinti sacri diveniva in accordo «the vault in which title deeds are preserved»8. La risposta al quesito è racchiusa tra le pieghe dello yolngu matha, la lingua Yolngu.
Rangga. La lingua Yolngu conosce altri termini, evidentemente assonanti. Wangarr, “gli Antenati”. Wa:nga, “la Terra”. Ngaraka, “le ossa degli Antenati”. Djunggayi, “il custode”. Un verbo: ngayathama, “custodire”. Un suffisso: –watangu, “il possessore”. I correlati concetti sono detti likan, letteralmente “gomito”. Ma anche, per analogia, “congiunzione”, o “connessione”: le nozioni likan cono “connesse”, non denotano differenti entità, ma differenti dimensioni di una stessa entità. Sul punto, Howard Morphy è chiarissimo: l’idea di una “distanza” tra i concetti «non è coerente con l’ontologia Yolngu»[6]. Il rangga non è soltanto aggrovigliarsi di tempo e spazio, eco di vicende mitiche, ma è soprattutto (paradossale) trasposizione nel mondo fisico del rapporto normativo – un rapporto di “custodia” e di “possesso” – tra Yolngu e territorio. Il rangga non rappresenta il “diritto”: è “diritto” o, in lingua Yolngu, rom.
Svelato il fondamento culturale dell’assonanza tra arte Yolngu e “atti di proprietà”, il quesito iniziale resta sospeso. Quale il ruolo della performance artistica nel dialogo tra culture? Qui la “minorazione” del popolo indigeno acquisisce connotati definiti: la ricerca di un “diritto di proprietà” Yolngu (a fondamento della pretesa giuridica dei nativi) rispecchia una tendenza “colonialista” dell’Occidente, che ingloba l’Altro nelle proprie categorie o, in alternativa, lo esclude. Da sinonimo di esistenza, l’arte indigena diviene pertanto meccanismo di resistenza a un tentativo di commensurabilità forzata: «Se abbandoneranno il rom […] gli Yolngu non saranno più “Yolngu”, ma soltanto “Aborigeni”»[7]. Le norme Yolngu non sono assimilabili alle rigide e spigolose strutture del diritto di proprietà occidentale, ma si rintracciano nelle curve sinuose che adornano i sacri rangga. Siamo di fronte ad una definizione “estesa” di “pluralismo giuridico”: non tanto una convivenza tra più legal system, quanto una pluralità relativa allo stesso concetto di “diritto”.
L’arte Yolngu, incorporata nel dialogo tra culture, non è mera performance del rom, ove performance indica, nella sua accezione classica, «the ways in which the cultural content of a tradition is organized and transmitted on particular occasions through specific media»[8]. L’arte Yolngu è anche (e soprattutto) enactment, “istituzione” del rom: una volta “esibito” in aula sotto forma di manufatto, il rom è reso esecutivo (enacted) e promosso “diritto in vigore” (enacted law) in Australia, al pari del diritto dello Stato. Secondo Frances Morphy, tuttavia, è proprio la complessità intrinseca alle performance culturali indigene il motore che aziona l’autorità del del rom: «For a moment, it must have seemed to the non-Yolngu present, as it certainly did to the Yolngu, that rom had momentarily displaced Australian law in its own space»[9]. I rangga prevengono il rischio che il reciproco riconoscimento a fondamento della negoziazione inter-culturale si traduca nella mera imposizione di un’etichetta (“proprietà” o “diritto”) sul rom. Attraverso la performance culturale, entrambi i “diritti” (australiano e indigeno) sono articolati e, in un certo senso, “presenti” nell’arena del processo.
Note
[1] Bruce Chatwin, Le vie dei canti, tr. it. di Silvia Gariglio, Adelphi, Milano 1988, p. 124.
[2] Cfr. Mark de Civrieux, Religión y Magia Kariña, Universitad Catolica “Andres Bello”, Caracas 1974, p. 16.
[3] Bruce Chatwin, Le vie dei canti, cit., p. 27.
[4] Lawrence E. Sullivan, “Sound and Senses: Toward a Hermeneutics of Performance”, in History of Religions, vol. 26, n. 1, 1986, p. 22 (tr. it. mia).
[5] W. Stanner, “The Yirkkala Land Case: Dress-rehearsal”, in White Man Got No Dreaming: Essays 1938-1973, a cura di W. Stanner, ANU Press, Canberra 1979, p. 278. L’esibizione dei rangga è ricostruita (e romanzata) nel film Where the Green Ants Dream (in italiano: Dove sognano le formiche verdi) del regista tedesco Werner Herzog (1984).
[6] Howard Morphy, Ancestral Connections: Art and an Aboriginal System of Knowledge, The University of Chicago Press, Chicago-London 1991, p. 189 (tr. it. mia).
[7] Frances Morphy, “Performing Law: The Yolngu of Blue Mud Bay Meet the Native Title Process”, in The Social Effects of Native Title: Recognition, Translation, Coexistence, a cura di Benjamin Smith e Frances Morphy, ANU E Press, Canberra 2007, p. 54 (tr. it. mia).
[8] M. Singer, Traditional India: Structure and Change, American Folklore Society, Philadelphia 1959, p. 4.
[9] Frances Morphy, “Performing Law: The Yolngu of Blue Mud Bay Meet the Native Title Process”, cit., p. 46.