Gioco alla fune tra riduzione e negazionismo
di Marcello Pecorari
Che non ci fossero più le mezze stagioni era già noto a molti ormai da qualche decennio, nonostante fosse più una logora e abusata frase fatta che una constatazione assodata dalla comunità scientifica. Da anni si sente parlare di cambiamenti climatici, con diversi gradi di allarmismo e coi più disparati approcci metodologici: dai carotaggi nei ghiacci antartici per valutare le concentrazioni nell’atmosfera terrestre di CO2 (la temutissima anidride carbonica) nelle passate ere geoclimatiche, agli indicatori meteorologici basati sui reumatismi mattutini. Senza voler togliere nulla all’efficienza e all’affidabilità di certe previsioni fai-da-te, o peggio voler qui entrare nel merito del panorama negazionista mondiale, i cui portavoce si sono dimostrati nella maggior parte dei casi lupi solitari senza competenze in materia e scienziati lautamente prezzolati, per determinare veramente l’entità e le modalità di un cambiamento planetario tanto imponente quanto repentino è assolutamente necessario e ragionevole affidarsi ai più importanti studi, realizzati dai grandi team internazionali di ricerca, vagliati dalla comunità scientifica e pubblicati sulle più autorevoli e prestigiose riviste scientifiche del mondo.
Questa premessa può senz’altro apparire di primo acchito esagerata, scontata e forse pure sciocca, ma risulta quantomeno necessaria in un momento storico e culturale in cui chiunque può arrogarsi il diritto di confutare le affermazioni altrui avvalendosi di un’inflazionata concezione del diritto di parola, esprimendo qualsiasi opinione personale al pari di una comprovata verità scientifica. Il tema dei cambiamenti climatici quindi non può essere oggetto di opinioni personali, a maggior ragione se gli eventi critici a essi legati sono oramai sotto gli occhi di tutti e preannunciati da almeno mezzo secolo dagli scienziati. Alcuni dei segnali contingenti di questo mutamento planetario riguardano la progressiva riduzione dei ghiacciai alpini, che rappresenta forse la più immediata ed evidente testimonianza del più ghiacciaiepocale stravolgimento del clima da quando l’Homo sapiens è apparso sulla Terra trecentomila anni fa, secondo i più recenti studi[1].
I ghiacciai, è bene ricordarlo, sono vasti depositi di ghiaccio perenne, che si formano nel tempo all’interno degli avvallamenti delle cime delle catene montuose; sono alimentati nelle stagioni invernali dalle precipitazioni nevose e rappresentano le principali riserve idriche che, soprattutto nei periodi estivi, alimentano i bacini idrici di molte aree del pianeta, da cui deriva il maggiore approvvigionamento di acqua per molte comunità vallive e per altri insediamenti umani. I ghiacciai si conservano quindi in uno stato di delicato e antico equilibrio, nel quale il bilancio tra l’accumulo nevoso dell’inverno e la fusione estiva oscilla sempre intorno a un sostanziale pareggio.
Se è però vero che da una parte questa stabilità si è perpetuata senza particolari variazioni nel tempo, fatte salve le naturali oscillazioni termiche dovute a fattori indipendenti dall’uomo e dalle sue attività, dall’altra si è cominciato ad assistere a una rottura dell’equilibrio glaciologico più grave del previsto, a partire indicativamente dall’inizio del Novecento. Confrontando qualsiasi serie fotografica sui molti ghiacciai alpini immortalati dal 1850, si nota in effetti una sensibile riduzione delle superfici glaciali, con una notevole ritirata dei fronti verso altitudini più elevate. Le cause di questo fenomeno vanno sì ricercate nel naturale arresto della cosiddetta Piccola Età Glaciale, che per circa cinquecento anni, a partire cioè dal XIV secolo, ha determinato stagioni relativamente più fredde rispetto alle precedenti epoche, ma soprattutto in un’alterazione termica dell’atmosfera particolarmente brusca, svincolata dal naturale trend oscillatorio, e non riconducibile ad altro che a un eccessivo effetto serra, attribuibile alle emissioni di gas climalteranti generate da attività umane sempre più intense e diffuse, accelerate esponenzialmente con la seconda metà del secolo, in corrispondenza con l’esplosione della crescita economica e dell’industrializzazione del Dopoguerra.
A partire da quel momento, ogni anno ha visto la chiusura dei bilanci glaciologici verso l’area negativa, determinando una lenta e progressiva regressione di queste imponenti masse di ghiaccio perenne e una sostanziale modificazione delle loro strutture originarie. La gran parte dei ghiacciai alpini e del paesaggio montano italiano in generale ha cominciato così a cambiare drasticamente aspetto, perdendo i propri connotati e determinando una trasformazione dell’ambiente locale sempre più estesa, via via più grave e preoccupante, raggiungendo negli ultimi cinquant’anni livelli critici senza precedenti, con una riduzione di oltre il 40% delle superfici.
Ne è un esempio il grande ghiacciaio Ciardoney della Val Soana, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, sulle Alpi Graie, a 2850 metri di altitudine, le cui condizioni di salute sono monitorate dal 1986 da un team di ricercatori guidati dal professor Luca Mercalli, climatologo, divulgatore e presidente della Società Meteorologica Italiana. Da quanto emerge dalle indagini condotte puntualmente ogni anno, il ghiacciaio ha perso 1,5 metri di spessore nel solo periodo tra 2015 e 2016 e ha subito un arretramento di 26 metri della propria fronte, lasciando emergere ampie morene, crepacci sempre più visibili e superfici detritiche totalmente prive di ghiaccio. Al di sotto della quota del Ciardonay, invece, i ghiacciai più piccoli, già completamente sciolti nei primi mesi estivi, si possono dire definitivamente estinti[2]. Si inizia quindi a intravedere qualcosa di più grave oltre alla compromissione di un ecosistema che è tra i più fragili della Terra e che costituisce un ottimo termometro naturale delle condizioni climatiche.
Questa vasta e diffusa riduzione, tanto più estesa quanto più rapida nella sua evoluzione, permette di comprendere l’entità di un danno in atto ben più grave e drammatico di quel che possa sembrare. Non si tratta infatti soltanto di una compromissione ai danni dei settori alpini, ma anche dei ghiacciai andini, himalayani, delle catene montuose del resto del mondo, così come per la banchisa artica e per il permafrost delle latitudini più elevate, dove l’aumento della temperatura è ben più ingente, al punto di causare lo scioglimento di miliardi di metri cubi di ghiaccio, innalzando il livello medio degli oceani e minacciando milioni di abitanti delle località costiere di tutto il mondo.
È evidente che siamo di fronte a un mutamento endemico mai conosciuto dall’uomo, tanto più rischioso quanto più complesse e poco predisposte all’adattamento sono le società umane moderne. Secondo gli scenari futuri tracciati dagli studiosi, se non verrà contenuto l’aumento della temperatura legato alle emissioni di gas a effetto serra non solo rispettando rigorosamente gli accordi di Parigi del 2015, ma anzi ponendo obiettivi ancora più ambiziosi, entro pochi decenni si assisterà alla totale scomparsa dei ghiacciai alpini e le montagne assumeranno l’aspetto di un paesaggio pirenaico. Si tratta della perdita di una risorsa fondamentale, tale da modificare non solo i rapporti con gli ambienti montani, ma anche con gli altri territori che da essi dipendono, con evidenti conseguenze sia dal punto di vista idrico, soprattutto in previsione di periodi siccitosi sempre più frequenti, sia dal punto di vista energetico, per la compromissione degli impianti idroelettrici, sia anche sotto un profilo storico, culturale, identitario e, non ultimo, turistico.
La riduzione dei ghiacciai montani è certamente solo una delle più piccole conseguenze del cambiamento climatico in atto, a fronte di eventi critici ben più pericolosi e intensi e che già oggi si stanno verificando in tutto il mondo, ma rappresenta anche una perfetta cartina tornasole di quanto sta accadendo al pianeta e impone all’uomo l’obbligo morale di agire non tra vent’anni o in attesa del prossimo summit internazionale, ma domani mattina, questa sera, in questo momento.
Note
[1] AA.VV., “The Age of Hominin Fossils from Jebel Irhoud, Morocco, and the Origins of the Middle Stone Age”, in Nature, vol. 546, 8 giugno 2017, p. 293.
[2] D. C. Berro, L. Mercalli, S.M.I., “Ghiacciaio Ciardoney (Gran Paradiso): estate 2016 lunga e calda, nuovo forte regresso”, Nimbus, 15 settembre 2016.
La rubrica di geografia è resa possibile dalla collaborazione con Egea Milano