Per una messa in scena dell’Isola degli schiavi

Il genio di Marivaux alle prese con un luogo di minorazione

Scegliere come argomento L’isola degli schiavi di Marivaux, in questo numero della rivista, appare a prima vista un ossimoro. Sì, perché chi ha sentito parlare dell’autore francese, soprattutto in Italia, certo si è lasciato incuriosire dall’espressione che subito si accompagna al Nostro, il marivaudage: l’invenzione cioè, nel suo teatro, di una lingua elegante e raffinata che si occupa prevalentemente del sentimento amoroso. Si sa invece meno che Marivaux piazzò questa lingua a semplice strumento per una riflessione sull’identità e l’integrità della società. Proprio da qui parto per dimostrare quanto in realtà il genio dell’autore francese non si perda in un semplice chiacchiericcio da salotto, ma dia vita a un linguaggio capace di intraprendere una spietata critica della società sua contemporanea.

L’isola diventa così un non-luogo che isola una parte della società per farne l’oggetto di un’analisi da laboratorio. Questo mette in crisi l’identità dei personaggi, che sono trasportati in un mondo sconosciuto; o meglio ritrovano il loro mondo, ma rovesciato: i padroni prendono coscienza del mondo dei loro schiavi, gli uomini di quello delle donne. È un trasferimento dei personaggi da un universo di origine a un altro che è contiguo, ma comunque a loro estraneo: questo metodo del “trasferimento” si riallaccia a un discorso tipico del periodo dei Lumi: da Montesquieu a Voltaire è proprio in questa tecnica che trova vita il mito del bon sauvage o dell’enfant de la nature e che serve da vettore a una critica, appunto selvaggia, della civiltà europea, contro l’eurocentrismo, e che vuole affermare, al contrario, la relatività dei punti di vista e delle culture.

Tutto inizia con un naufragio. Una nave proveniente da Atene naufraga nei paraggi dell’isola degli schiavi: qui arrivano Ifricrate e Eufrosina, i Padroni, e i loro Servitori, Arlecchino e Cleante. Proprio Ifricate rivela ad Arlecchino il nome dell’isola, e quindi la legge fondamentale che vi regna: i servitori diventano padroni, i padroni i loro schiavi. I due personaggi non si scambiano solo il loro ruolo sociale, ma anche il nome e i vestiti. Questo perché Trivellino, il capo dell’isola, spera che con tale scambio si possa attuare una vera e propria riforma morale dei padroni e si possa mitigare, dall’altra parte, il risentimento dei loro schiavi. L’immagine del mondo capovolto è senza dubbio l’immagine che domina l’universo dell’Isola degli schiavi, e in questo senso il naufragio sull’isola è, in particolare per i padroni, soprattutto un viaggio verso il basso.

Antonio Carnevale nei panni dell’Arlecchino di Marivaux portato in scena dalla Compagnia Carnevale al teatro Corte dei Miracoli il 10 marzo 2017 | © Marvi Pezzoni 2017

Antonio Carnevale nei panni dell’Arlecchino di Marivaux portato in scena dalla Compagnia Carnevale al teatro Corte dei Miracoli il 10 marzo 2017 | Ph. Marvi Pezzoni, © 2017

Sostituendosi ai loro padroni, i servitori cercano di imitare le loro maniere e il loro linguaggio. Ma vi riescono in maniera maldestra, e infatti Arlecchino si mostra totalmente incapace di farlo. Il comico nasce appunto dal cortocircuito, o dalla distanza tra lo stato dei caratteri dei personaggi e il loro linguaggio. E mostrare questa lontananza garantisce il ritorno e la conservazione dell’ordine morale. Arlecchino non può credere davvero, né convincere qualcun altro, di essere un padrone, proprio perché è tradito dalle sue maniere e soprattutto dal suo linguaggio. Si tratta di smascherare l’altro, di smascherare chi detiene il potere, ma soprattutto il possessore esclusivo di un tipo di uso della parola: tutto per dimostrare la sua vacuità.

Il potere che i padroni esercitano sui lori servitori e quello che gli uomini esercitano sulle donne hanno in comune l’essere l’oggetto di una passione: questi personaggi sono infatti animati da una passione per il potere. Ma soprattutto sono animati da un’opinione eccessivamente elevata di loro stessi, che li conduce a voler piegare la realtà in maniera conforme a questa immagine falsata che loro stessi hanno creato della loro potenza: l’immagine di un potere immaginato e immaginario.

La sovversione carnevalesca è strettamente legata al gioco teatrale, mette in causa la natura e il senso dello spettacolo, e si impegna, in questa esperienza collettiva, a mettere a repentaglio, a far vacillare la realtà drammatica ma anche la realtà stessa. Partendo dalla concessione della parola allo scemo, al pazzo, al fou, si attua una critica sociale fortissima basata sul paradosso. È paradossale perché, anche grazie alla maschera, non si assiste a una mascherata ma appunto al suo contrario: una messa a nudo, una demistificazione dell’ipocrisia e della vacuità di certi codici, in una società teatralizzata all’eccesso. Ecco per contrasto, dunque, l’utilizzo nell’opera e il ricorso alla maschera di Arlecchino da parte di un autore, Marivaux, in cerca della verità. Marivaux frequentava i Salons dell’epoca, Salons nei quali l’apparenza aveva più importanza del senso.

La volontà di Marivaux, con questo testo, è quella di sviluppare una critica affilata della società a lui contemporanea. Innanzitutto una società profondamente inegualitaria, che basa questa diversità sul caso, sulla fortuna, ma anche sulla nascita. La denuncia delle diseguaglianze sociali può partire soltanto da una circostanza eccezionale, quella del naufragio, in un luogo eccezionale, l’isola, e che conduce appunto a una situazione di crisi che favorisce il capovolgimento dei ruoli abituali. Per Marivaux è solo attraverso l’esperienza dell’inferiorità che i grandi e i padroni possono capire la natura del loro potere. Quello che Marivaux critica non è la gerarchia sociale, non è la differenza di condizioni, ma la volontà di dominare, critica le passioni che, quando sono vissute come una necessità, rendono invivibili queste gerarchie e il loro funzionamento. L’esperienza utopistica dell’isola non ha come risultato quello di cancellare le differenze tra gli uomini, ma permette al contrario di pensare la natura umana come conflittuale, perché permette di comprendere l’altro che è in noi, che agisce su di noi e soprattutto vive con noi. I personaggi, circondati d’acqua, non dispongono d’alcun mezzo per abbandonare l’isola. Non possono evitarsi. La scelta di tale spazio rende dunque il confronto inevitabile: è una prigione, soprattutto per i padroni, è un luogo nel quale sono obbligati soprattutto ad ascoltarsi. Un luogo ideale che diventa uno spazio di comunicazione reciproca fondata sulla logica dell’identità e della differenza. E questa logica ha un senso prima di tutto politico, perché la sua funzione è quella di regolare la soggettività umana all’interno della comunità. L’esercizio della ragione favorisce un’osservazione differente del mondo e della società. È dunque necessario far prendere coscienza a tutti del carattere artificiale delle differenze di classe al fine della sparizione non delle differenti classi, ma delle distinzioni non oggettive tra gli uomini. Ecco perché la nascita, per Marivaux, non significa nulla. È l’elezione della ragione pratica e l’educazione che fanno l’uomo bien né, un uomo di qualità. Cleante dice appunto, indirizzandosi a Trivellino e a Eufrosina: «Bisogna avere cuore, della virtù e della ragione. Ecco di cosa c’è bisogno, ecco cosa è davvero importante, quello che distingue, che fa un uomo migliore».

di Antonio Carnevale

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