Immigrazione e criminalità: tra realtà e immagine legislativa
Immigrazione e criminalità: un binomio che appare inscindibile non solo nel discorso pubblico e nell’immaginario collettivo, ma anche nell’attività del legislatore che, a fronte delle pressanti istanze securitarie, reagisce con un sempre maggior utilizzo dello strumento penale.
Si parla, infatti, costantemente di “emergenza sbarchi”, non solo in senso umanitario, ma anche in un’ottica di allarme sociale: il migrante è percepito non come soggetto in fuga da guerre, persecuzioni politiche o carestie, bensì come mera fonte di pericolo per la sicurezza pubblica e, come tale, suscettibile non di accoglimento, bensì di respingimento. Tale allarme sociale genera a sua volta un’insicurezza collettiva, a cui il legislatore prontamente risponde con un inasprimento delle sanzioni penali in tema di immigrazione. Si assiste, infatti, a una progressiva estensione dell’area di rilevanza penale, che raggiunge il suo culmine con l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, di cui all’art. 10 bis T.u. immigrazione. Attraverso la previsione di tale reato, la mera violazione delle norme di ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato, precedentemente sanzionata in via amministrativa, viene elevata a illecito penale. Dunque non si punisce un fatto, ma una condizione personale, sul presupposto che il migrante irregolare sia, in quanto tale, soggetto pericoloso per l’ordine pubblico. In questo senso, fondandosi su una presunzione assoluta di pericolosità del migrante irregolare, il reato di immigrazione clandestina sembra essere la traduzione in termini normativi dell’equazione immigrazione-criminalità. Inoltre, dal punto di vista sanzionatorio, la pena dell’ammenda è meramente simbolica e destinata all’ineffettività, in quanto insuscettibile di essere soddisfatta da parte di soggetti si presume versino in stati di povertà.
Il reato di immigrazione clandestina è frutto della logica emergenziale che da anni ispira la normativa in tema di immigrazione, imperniata sulla raffigurazione del migrante quale soggetto in sé fonte di disordine sociale, e, come tale, da allontanare dal territorio nazionale. È evidente come la scelta di fondo del legislatore sia quella di regolare il fenomeno migratorio in senso protezionistico, limitandone i flussi, con conseguente riduzione dello stesso a mero problema di legalità e di ordine pubblico. “Sicurezza” sembra essere infatti la parola chiave della disciplina dell’immigrazione, come testimonia l’insieme di provvedimenti raccolti in quello che è stato simbolicamente denominato “Pacchetto sicurezza”. In questo contesto, le norme non vengono valutate per la loro efficacia a governare, nel rispetto dei diritti fondamentali, il fenomeno migratorio, bensì in funzione del numero di espulsioni effettuate. E proprio la ricerca dell’effettività dei provvedimenti di espulsione si è tradotta in una corsa al rialzo delle misure repressive, in un crescendo che ha portato alla nascita di un “diritto speciale” dello straniero, di natura in parte amministrativa e in parte penale. Tale diritto è definibile infatti come un sottosistema penale amministrativo, in cui i principi e gli scopi dell’ordinamento penale vengono asserviti all’attività amministrativa preordinata all’allontanamento dello straniero[1]. In particolare, si verifica un ricorso frequente a misure afflittive denominate come “amministrative”, che sono nella sostanza vere e proprie pene, in modo da superare i limiti garantisti del diritto penale.
All’interno di tale sottosistema, la restrizione della libertà personale del migrante rappresenta non un’extrema ratio, bensì la regola. In questo senso, il trattenimento dello straniero irregolare presso i Centri di Permanenza per il rimpatrio[2] rappresenta la misura paradigmatica del diritto speciale del migrante. Si verifica, infatti, una vera e propria “amministrativizzazione dei diritti fondamentali del migrante” (cit.), in quanto la limitazione della libertà personale dello straniero viene eseguita, in via ordinaria e non soltanto in casi eccezionali, dall’autorità di polizia, con un intervento solo successivo del giudice. La permanenza nei centri è, sostanzialmente, una forma di detenzione estranea al diritto penale, dal momento che la privazione della libertà personale non trova giustificazione in una sentenza di condanna né in un’ordinanza di custodia cautelare. Al riguardo, parte della dottrina ritiene tale stato di privazione della libertà personale una forma di “detenzione amministrativa”, che trova il proprio presupposto in un provvedimento emesso dal questore. Siamo, dunque, di fronte a un vero e proprio gioco linguistico posto in essere dal legislatore, il quale, nel riferirsi ai CPR, evita formalmente l’utilizzo del termine “detenzione”, in quanto suscettibile di fotografare la realtà sostanziale (penale) di tali centri.
Ma, di fronte a tale quadro normativo, qual è la reale misura della criminalità straniera?
Anzitutto, nel decennio 2004-2014 le denunce sono aumentate del 34,3% per gli stranieri, che nel frattempo sono però più che raddoppiati, in quanto la loro presenza è passata da 2.402.157 a 5.014.437 unità. Sono invece aumentate del 40,1% per gli italiani (da 480.371 a 672.876), a fronte di una diminuzione della presenza italiana (da 56.060.218 a 55.781.175). E ancora: sulle denunce con autore noto gli stranieri hanno inciso nel 2004 per il 32,3 % (229.243 su un totale di 709.614), mentre nel 2014 per il 31,4% (307.978 su un totale di 980.854)[3]. Tuttavia, il dato che più viene utilizzato, da esponenti politici e mass media, come prova del maggior tasso di criminalità dei migranti è la sovra-rappresentazione della presenza straniera nelle carceri italiani. In effetti, dai dati del Ministero della Giustizia al 30 aprile 2017 relativi alla presenza straniera nelle carceri italiane, risulta che un terzo dei detenuti è di origine straniera. Tuttavia, esso si è rivelato come il meno affidabile degli indicatori dei reati commessi nel nostro Paese da cittadini non italiani. Anzitutto, dalla rilevazione del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2016 risulta che su un totale di 25.635 affidamenti in prova, ben 21.899 sono stati usufruiti da italiani, e solo 3.735 da stranieri. Similmente per le semilibertà: su un totale di 1.415 provvedimenti, solo 138 sono stati concessi agli stranieri; e ancora, su un totale di 24.591 detenzioni domiciliari, gli stranieri che ne hanno beneficato sono stati 4.742. Inoltre, le condizioni di marginalità sociale in cui vive lo straniero influiscono negativamente sulla prognosi di non recidività che risiede alla base della concessione della sospensione condizionale della pena (art. 163 ss. c.p.), facendo sì che lo straniero sia spesso condannato a pena detentiva breve (non superiore a due anni). Infatti, dalle statistiche del Ministero della Giustizia risulta che la percentuale di stranieri presenti in carcere è superiore a quella degli italiani per condanne fino a cinque anni, mentre, viceversa, per le condanne superiori a cinque il rapporto si inverte. Nel dettaglio, mentre per le pene fino a un anno la percentuale di stranieri è del 46%, per quelle dai 10 a 20 anni scende al 20,9%, fino ad arrivare al 5,6% nel caso di condanna all’ergastolo.
Vi è, dunque, un evidente divario tra realtà e immagine legislativa dell’immigrazione, che affonda le proprie radici nella difficoltà del legislatore di gestire il fenomeno migratorio, nonché le tensioni sociali che ne derivano. Siamo di fronte a un diritto penale simbolico, mero strumento di rassicurazione collettiva nei confronti di una minaccia che i dati mostrano essere artificiosamente ingigantita da politici e mass media.
Note
[1] A. Caputo, “Irregolari, criminali, nemici: note sul ‘diritto speciale’ dei migranti”, in Studi sulla questione criminale, n. 1, 2007, p. 58.
[2] Già “Centri di identificazione ed espulsione”, così ridenominati dall’art. 19 co. 1 del d.l. 17 febbraio 2017, n. 13.
[3] Dati consultabili su Repubblica.it alla voce: “Cittadini stranieri e denunce penali: i dati”.