All’arme

Sintesi simboliche negli stemmi della casata Visconti-Sforza

Nella prima metà del XII secolo compare un po’ ovunque in Europa occidentale, soprattutto nelle zone site tra il Reno e la Loira, una formula emblematica che caratterizzerà e trasformerà in modo radicale tutte le pratiche simboliche della società medievale: l’arme. Questa influenza è forte ancora oggi: basti pensare ai colori liturgici, alle bandiere nazionali e alle insegne militari e civili che derivano in larga parte dal sistema araldico medievale.

Non è facile individuare l’effettiva data di nascita di questo sistema. L’arazzo di Bayeux (1080 ca.) porta ricamati degli scudi con inseriti dei simboli, che però non possono ancora considerarsi come vere e proprie arme; possono esserlo invece le figure che ornano lo scudo di Goffredo Plantageneto sullo smalto della sua stele funeraria, conservata presso il Museo Tessé a Le Mans, datata verso il 1160. A livello cronologico possiamo infatti individuare tre fasi che caratterizzano lo sviluppo dell’arme: una fase di gestazione (dall’inizio dell’XI secolo agli anni 1120-1130), una fase di comparsa (1120-1130 – 1160-1170) e una di diffusione (1170 ca. – 1230 ca.)[1].

Inizialmente le arme erano esclusive di principi e grandi signori, ma col tempo giunsero a essere presenti in ogni situazione della vita sociale venendo adottate anche da artigiani, donne, città, categorie professionali, vescovi e chierici; addirittura, in Normandia e nelle Fiandre, da contadini. Le arme si sono sempre composte di due elementi – colori e figure – che all’interno dello scudo si combinano tra di loro con poche e rigorose regole. Ad esempio i colori sono sei[2] e sono colori assoluti, immateriali; le sfumature non contano, non importa se il rosso è chiaro o scuro, ma è l’idea di rosso che conta. Le figure invece sono potenzialmente infinite e libere.

Esistono delle arme, definite parlanti, nelle quali vi sono elementi che con un gioco di parole o attraverso assonanza fonetica richiamano il nome del possessore: in forma semplice il simbolo richiama direttamente il cognome, come nel caso della famiglia La Tour che nell’arme porta una torre; in altri casi ciò avviene in modo allusivo, come nell’arme di Guglielmo di Capraville, che porta una testa di capra; oppure per mezzo di veri e propri rebus, come nel caso dei conti Helfenstein, che associano nell’arme un elefante (Elefant) e una pietra (Stein). Queste arme sono state spesso considerate meno nobili o antiche, o araldicamente meno pure di altre, per via dal fatto che hanno avuto una vastissima diffusione in ogni strato sociale, il che a sua volta ha fatto sì che gli araldisti dell’Ancien Régime le vedessero di cattivo occhio.

Clipeo raffigurante una mela cotogna, simbolo di Francesco Sforza. Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Milano. Ph. Sergio Bernini 2017.

Clipeo raffigurante una mela cotogna, simbolo di Francesco Sforza. Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Milano. Ph. Sergio Bernini 2017.

Molto spesso si è anche cercato di ridurre a un’immagine le intenzioni, il carattere e i sentimenti di una persona, non sempre con risultati chiari e soddisfacenti. Una delle famiglie nobiliari che fece un uso smodato e preciso di questi emblemi personali fu quella dei Visconti-Sforza.

La casata visconteo-sforzesca fu una delle dinastie europee che ricorse maggiormente all’uso di “imprese” personali: se ne contano circa una trentina tra quelle principali e oltre un centinaio tra quelle minori[3]; esse sono contemporaneamente individuali, ovvero create ad hoc per una persona precisa, ed ereditarie; il loro significato spazia da quello militare a quello amoroso e la loro funzione era quella di affiancare lo stemma della casata su vestiti, oggetti personali, codici miniati ed edifici, per permettere di distinguere i vari membri della famiglia. In una lettera inviata il 18 marzo 1475 dal duca Galeazzo Maria Sforza al notaio Gottardo Panigarola, relativa a una fornitura di divise, si legge: «Gotardo Panigarole. Non obstante te habiamo commisso faci fare le zornee de li capi de squadra de veluto colorato, tamen adesso te dicemo li face fare a la divisa sforzesca […] Quelle de li Ill.mi nostri fratelli con le loro divise, videlicet de d. Philippo con el cane, quelle del duca de Barri[4] con le moraglie, quelle de d. Lodovico con lo scovino, como porta ciascuno de loro, quelle de Ottaviano cum el plumaglio»[5].

Qual è il significato dietro ai simboli chiesti per adornare le divise e chi è il loro ideatore?

Nella lettera, il primo emblema citato è quello del cane sedente sotto il pino, legato alla figura di Bernabò Visconti, cacciatore appassionato: raffigura un levriero seduto sotto un pino mentre la mano celeste trattiene in alcune versioni il cane per il guinzaglio, in altre è nell’atto di liberarlo. Solitamente l’emblema è accompagnato da un cartiglio con scritto: Quietum Nemo Impune Lacesset (“Nessuno impunemente attenterà alla pace” o “Nessuno provocherà il tranquillo”) molto vicino al detto “Non stuzzicare il cane che dorme”. Francesco I e Filippo Sforza utilizzarono molto questo emblema di Bernabò, così avvertendo che, non recando molestia ad alcuno, non sopportavano che se ne desse a loro, tenendosi pronti in caso contrario a reagire alla provocazione.

Le moraglie, ovvero il morso per i cavalli, simboleggiano equità, giudizio e moderazione. Sembra che questa impresa fu ideata da Gian Galeazzo Visconti e ripresa da Galeazzo Maria accompagnata al motto Ich Vergies Nit (“Io non dimentico”).

L’impresa della scopetta, o scopino o pennacchio, ha una simbologia molto chiara in quanto raffigura una piccola scopa che serve per levare la polvere. Ideata da Francesco Sforza, era accompagnata dal motto Merito et Tempore. L’emblema sarà molto caro a suo figlio Ludovico il Moro che, come riporta Paolo Giovio, farà dipingere nel Castello Sforzesco l’Italia in sembianze di donna, con una veste finemente ricamata, con i castelli del regno, e con uno scudiero attento a ripulirla con la scopetta. Alla richiesta dell’ambasciatore fiorentino di avere una spiegazione sullo stemma lo Sforza rispose: «Lo scudiero sono io e scopetto la veste e le città d’Italia per nettarle da ogni bruttura», al che l’ambasciatore rispose: «Attento alla polvere: potrebbe sporcarvi»[6].

La corona attraversata da due rami, uno d’ulivo e l’altro di palma da frutto, è l’insegna dei piumai ideata da Filippo Maria Visconti con la volontà di raffigurare un dominio di gloria e di pace.

Emblemi degli Sforza scolpiti sulla fontana del Cortile ducale del Castello Sforzesco di Milano.

Emblemi degli Sforza scolpiti sulla fontana del Cortile ducale del Castello Sforzesco di Milano.

Questi e altri emblemi, oltre a essere usati singolarmente, potevano anche essere uniti per raffigurare un messaggio politico, come si può vedere nel fregio marcapiano presente sulla Loggia degli Osii in Piazza Mercanti a Milano. La Loggia, uno dei pochi palazzi medievali di destinazione civile rimasti in città, inizialmente edificata in legno nel 1251 e poi ricostruita in pietra nel 1316 per volontà di Matteo Visconti, veniva utilizzata per leggere i bandi e gli statuti comunali[7]. Nel fregio che divide il piano terra dal piano alto sono raffigurati, assieme al biscione visconteo-sforzesco, allo stemma crociato della città e agli stemmi dei rispettivi rioni cittadini[8], cinque imprese della casata. I simboli, tre scolpiti all’estrema sinistra del fregio e due sui lati corti del balcone, sono: il tizzone ardente con i secchi, che sta a simboleggiare l’ardore mitigato dalla temperanza; l’iride, ovvero un arcobaleno in una nube, che rappresenta i rapporti tra cielo e terra; il cimiero sormontato da un albero seminato di lacrime, simbolo non chiaro, che qui sulla Loggia sormonta uno scudo inquartato con il biscione e tre aquile imperiali; il cane sedente sotto il pino e i semprevivi, accompagnati dal motto Mit Zeit (“Col tempo”), che indicano che col tempo si conseguirà vittoria sui nemici. I primi quattro, accompagnati dalle iniziali “G.M.”, sono legati alla figura di Galeazzo Maria Sforza, il rimanente è della madre Bianca Maria Visconti, iniziali “B.M.”.

Dietro di essi è nascosto un messaggio volto a legittimare il passaggio dinastico e l’ufficialità del potere di Galeazzo Maria Sforza; alla morte del padre Francesco, infatti, si crearono dei dissidi riguardanti la successione. I tizzoni indicano il suo temperamento, l’iride (simbolo divino) e lo scudo sormontato dal cimiero indicano la legittimazione del suo titolo davanti al potere spirituale e temporale, il cane sotto il pino simboleggia la sua prontezza ad attaccare chi metterà in dubbio il suo potere, mentre i semprevivi indicano che col tempo la sua autorità sarà riconosciuta.

I simboli non sono mai scelti e disposti senza ragione, e anzi possono aprirci a considerazioni e visioni nuove se letti correttamente.

Note

[1] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Laterza, Bari 2010, p. 198.

[2] Bianco, giallo, verde, nero, rosso e azzurro.

[3] G. Cambin, Le rotelle milanesi. Bottino della battaglia di Giornico 1478. Stemmi-Imprese-Insegne, Società svizzera di araldica, Friburgo 1987, p. 135.

[4] Galeazzo Maria Sforza.

[5] Stemmario Trivulziano, a cura di C. Maspoli, Niccolò Orsini de Marzo, Milano 2000, p. 36.

[6] P. Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Nabu Press, USA 2010, p. 114.

[7] G. Biscaro, La Loggia degli Osii e la “Curia Comunis” nel Broletto Nuovo di Milano, Archivio Storico Lombardo, Milano 1904, p. 358.

[8] Rispettivamente lo stemma di Porta Ticinese, Porta Romana, Porta Orientale, Porta Vercellina, Porta Comacina, Porta Nuova. Lungo il fregio compare anche uno stemma con uno sgabello, corrispondente a Porta Ticinese; questo, in una data non ben precisata, cambia.

di Marco Saporiti

Autore

  • Laureato in Storia e Critica dell'Arte, ha una passione infinita per il Rinascimento tedesco, la batteria e la musica progressive. Ha la capacità innata di diventare un'ombra quando è al cospetto di troppe persone.

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