il fiore aperto non sbocciato,
il cielo terso annuvolato.
Su quale terra posarsi?
In quali acque bagnarsi?
Una dolce agonia giunge all’Uomo
quando cammina tra i Tempi,
i suoi piedi e le sue gambe
sono già sporche di fango.
Allora sono in lui
chi spera e chi ricorda,
il cieco e il vedente,
l’amante e l’amato;
allora ritrova una strana quiete,
una dolce serietà intrisa di dubbio.
Hai lasciato la culla della Grande Madre,
hai dato l’addio al lontano Padre,
e ora guardi al cielo, alle sue sfumature.
È forse l’alba che viene,
una tenue aurora?
È forse il tramonto,
che fu prima di te?
Camminiamo tra i colori di ogni dio,
le nostre vesti si macchiano di ogni cosa.
Ricordare eventi, sentire il futuro.
Dal mare aperto sgorgano monti.
Popoli! Che cercate una vostra presenza!
Dove sono ora i vostri ideali?
Dove sono i fuochi delle vostre fornaci?
Perché pure la cenere vuole virtù!
Ma tutti agitiamo scintille consunte
innalziamo muri, grembi sterili,
riempiti di un vento troppo gelido.
La fiamma mai arde allo stesso modo,
il fuoco che nasce non è quello che muore!
Viviamo di un’epoca senza nome,
nel suo Vuoto (無) tutto chiama.
Giunge il profeta, fedele Ezechiele
che guarda lontano, colui che misura.
Viene a istruire il viandante sospeso,
tra le sue corna rifulge l’Alto.
«Lo vedi? Il rosso si fa azzurro
e il turchese risplende d’oro.
Un amico viene, lascia la riva,
il Grande Animale tutto divora,
ma nella corrente c’è ciò che salva.
L’Abisso della Storia non è assoluto,
questa è una lezione che tardi s’apprende,
ma tutto è trasceso, un balzo futuro,
che già si vive in questo presente.
Realizza, Uomo, le cose che sono,
tu sei il cammino, sei colui che scala,
presto toccherai i piedi del monte,
la vetta che sei è già all’orizzonte.
Ascolta il vibrare, la musica eterna,
la danza di luce, l’astral’aria.
È lì che ti chiama l’universo,
lasciare il mondo, farsi erranti,
rivestirsi di stelle e galassie».
Ed io, in ginocchio, riconoscente,
non potei non cadere sul suolo natìo
di coloro che nascono fatti di fumo.
«Antico saggio dallo scettro fermo,
su di noi fai leva come un perno,
in quale riposo siamo gettati
quando la coltre si desta
in una goccia d’erba?
A te vorrei muovere il cuore
e tutto l’amore di cui sono in grado!
Perché porti con te il silenzio
che tutto rende ieratica estasi.
Se da te scorresse un nettare dolce
che sciogliesse la lingua e fosse sapienza!
Libera le api che portano parole,
lascia che mi nutra alle tue pagine!
Sento il tuo fervore,
fin dentro le carni,
santo patrono!
Libraio di Dio!»
«Forse la nave che lascia la riva
scambia la terra per il mare?
Eppure così nasce ogni uomo,
assettato di cielo, affamato di frutti.
La Legge vuole che nel mezzo
sia posta la Libra dai piatti sciolti,
e che quattro siano le braccia
che ondeggiano al suo agitare.
Mai le acque si sono fermate,
solo la nebbia si fa più spessa.
Ma non cercare nei boschi
la lingua degli uccelli.
Non cercare gli dèi
in scintille spaurite.
Nei luoghi sacri si entra
col piede sinistro,
nei tempi si entra
navigando.
Sempre il poeta avviene
e sempre deve dire,
pone sulle sue labbra il dito
il maestro d’Oriente,
ti chiamammo, Uomo,
di fronte alla Natura,
e come tale, sei stato assalito.
Perché ogni bocca mai parla
per virtù propria,
ma il divino assassina
e conficca pugnali
nelle teste d’oro.
Che ogni cosa s’accentri
in balzi ascendenti.
Ricorda, Uomo,
nei tuoi viaggi siderali,
porta con te gli dèi,
porta con te gli dèi».
Scompare il Verbo che è pronunciato,
nel suo rivelarsi vi è il sacrificio.
Forse attore di un vasto teatro,
forse Padre che ci ha partorito.
Si immola ancora
il giovane agnello
nelle acque
del vasaio,
si fa capriolo
che risale la roccia.
Lo zodiaco è l’universo
che ritrova se stesso.
Viene un viandante, vestito di stracci,
Platone, che porta la sfera.
Ermete secolare
del blu dei sapienti
che vivono il passare,
indica la costa,
fra la terra e il mare.
«Ciò che splende mai riluce,
ciò che brucia mai riscalda,
talvolta i rami vanno raccolti
per costruire risvolti
di antiche meraviglie
e case popolari.
Chi viene alla riva
ritrova la prima istanza,
il pensiero si feconda
a guardare il Paradiso.
Cosa sei, Eden,
se non il primo sguardo?
Cosa sei, anima,
se non il primo respiro?
Noi soli creiamo
con i nostri occhi
il primo cielo ammirato
di un sole caldo.
Pioggia! Che così lieve ci disegni!
Traccia le vie delle nostre vene!
Guarda, guarda il mio petto!
In esso batte ogni cuore,
da qui sgorga il sangue!
Vieni alla riva,
asciuga le membra,
ma non raccontare
filosofie!
I palazzi si fanno
di pelle d’uomo.
Il sapere è un loto
che nasce dal fango.
A quale anima non tocca
un volto scavato?
Perché l’onore dell’ospite
è di aver vagato.
Così ad un amico
rivolgiamo quesiti,
per entrare nel luogo
che lo nutrì.
Chi vive nell’altro
si fa asceta.
Ciò che fai con la mano,
lo fai a te stesso.
L’Onorato del mondo
posò un filo d’erba,
lì sorse un tempio
che chiamò pianura.
Ritrova il suono
di una mano sola»
E così l’onda ci avvolge,
prima della parola,
verde smeraldo
intriso di giada.
I maestri ci chiamano
nei loro sussurri,
e se ne vanno
in sabbie bagnate.
Ma chi ci abiterà
nel nostro risalire?
Chi riscalderà
i nostri corpi?
Chi saremo
nella nostra ascesi?
Un flauto accompagna
chi parte e chi resta,
qualcosa sorge
dal profondo oceano,
seduto sulla riva,
aspetto.
Ciò che ha da venire.