Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994) dà nelle sue poesie pennellate nette, spontanee, dai caratteri forti e dal linguaggio in alcuni punti molto maturo. Il senso musicale si estende senza troppe incertezze e traccia passo passo un sottile solco tra ciò che si scrive e ciò che si immagina: il tono, dolce, esprime concetti duri, denotati da una delicatezza impropria, in cui il tempio della parola non produce un’aderenza tra il detto e l’immaginato. Nasconde quindi negli interstizi un dolore interiore, una ferita che diffonde e inghiotte i testi, non cadendo mai nel manierismo; si racconta l’autrice, osserva e collega la realtà siciliana, con l’incursione di alcuni dialettalismi, alla potenzialità di un fare poesia secondo natura: solo nelle radici si può fare un verso di valore. Raccoglie bene la lezione montaliana, in cui il paesaggio fa da contraltare a sensazioni profonde che affondano e si legittimano nella terra. Un tono nel complesso sottile che espone il dramma del cambiamento, senza i crismi di certa retorica, andando a fondo in una scelta forte, drammatica, non nascondendo tutti i difetti del caso. Da ultimo, i suoi testi sono semplici, chiari, vividi e questa è, credo, la forza più grande di questa giovane poetessa: i suoi versi parlano a tutti, senza cadere nell’ozio dell’oscurità forzata, già conscia del fatto che la poesia non è una sfida al lettore, non è un gesto sdegnato rispetto al volgo, ma, al contrario, un dono cavato fuori, come i diamanti dal carbonio.
Victor Attilio Campagna
Poesie tratte dalla raccolta inedita Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto
Dalla sezione “Cespugli d’infanzia”
All’inizio non ci piacemmo affatto.
Fu uno squadrarsi da lontano
come fanno i gatti di notte
gonfi e diffidenti – un po’ goffi.
Le prime settimane tu sedevi
in fondo alle scale e mi fissavi
con lo sguardo di chi porta con sé
un segreto che non si può dare.
Allora avrei voluto strapparti
la bocca insieme alle parole
che nascondevi tra i denti.
Mi negavi persino la tua
identità – tacendo tutte
le parole si facevano mute,
le attese slabbrate, le stanze
all’improvviso enormi.
In realtà volevi darmi tempo.
Mi avevi protetta per diciotto anni
ed io non lo sapevo – vedevo
in quei silenzi una minaccia,
una beffarda provocazione
a indovinare quale pensiero
mi precludevi, quale angoscia
mi risparmiavi – sbagliavo.
Così l’attesa era la tua.
Aspettavi da anni come si attende
la salute ai piedi di un malato,
come chi ha perso qualcuno
smaltisce il male sulle scale
di casa. Quegli occhi erano
una preghiera, un inno muto
alla rinascita.
Mi amavi ed io ti incolpavo il silenzio
– già sapevi che in quel silenzio
sarebbero germogliate
le verità più oscure. Più vere.
*
Al mio paese esiste una parola
nitida come un chiodo
un motivo che scongiura il male.
“Scansatini” è una preghiera,
un inno altissimo alla preservazione
di se stessi. “Fa’ che non accada”,
sentivo bisbigliare spesso
“Fa’ che non diventi così”, e poi
all’improvviso le labbra si serravano
e le parole assumevano un accento
arcano, quasi inviolabile.
Eppure gli “Scansatini, Signuri”
tornarono uno ad uno: il male
da scansare fu concepito tutto
nel mio grembo – ma non ci furono nuovi
spergiuri da formulare, parole
che annullassero parole, mani
da alzare al cielo per fingersi
inutilmente sorpresi, feriti.
Allora ci fu solo da sbrogliare
gli anni subìti, mettere a posto
le parole e liberare all’aperto
quello che a mani giunte si temeva.
E quel mostro che in tanti anni
avevo allontanato, fu assai più
docile quando, abolite le catene,
lo presi infine per mano.
*
Dalla sezione “Dolore minimo”
L’altra notte, sai – adesso ricordo –
oltre l’amore paziente che mi hai dato
c’era qualcos’altro. Tu forse
non ci hai fatto caso. Tu pensi
forse che due corpi non abbiano
altro da darsi che i loro corpi.
Ma l’altra notte – ne sono sicura –
c’era qualcos’altro.
Non so come l’avessi proprio tu
quello che in vent’anni andavo cercando.
Perché proprio tu e non un altro
– così caro verso questa carne
che a stento si riconosce –
ma per sbaglio nella tasca destra
dei tuoi pantaloni, prima di andartene,
appallottolato ho trovato il mio nome.
Ed è così buffo sapere che ti appartenga
prima ancora d’appartenere a me.
*
Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribaltava e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi nei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di una natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.
A dirci che potevamo essere
chi non volevamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere.