Grandi numeri di reati e sanzioni sempre più pesanti
Un articolo di Michele Ainis, pubblicato su Repubblica del 9 aprile 2017[1], contiene degli spunti molto belli, evinti da alcuni dati piuttosto inquietanti.
Si parte da un numero che già di per sé la dice lunga: quanti tipi di reati vigono in Italia? Trentacinquemila. In particolare, «solo a considerare gli ultimi mesi, il Parlamento ha introdotto i reati di frode processuale, depistaggio, intermediazione illecita, omessa bonifica, impedimento di controllo, omicidio stradale, e via punendo e castigando».
Quante forze di polizia nazionali? «Quattro (carabinieri, polizia di stato, guarda di finanza, polizia penitenziaria), che rispondono a quattro ministeri diversi (difesa, interno, economia, giustizia)». I loro uomini sono 310 mila, uno ogni 190 abitanti.
Dall’altro lato della barricata abbiamo 246 mila avvocati iscritti all’Albo nel 2016 (contro i soli 48 mila del 1985). Attenzione perché questo numero è totale, e non riguarda solo i penalisti; vero è, d’altro canto, che gli avvocati possono potenzialmente patrocinare dove pare loro: nulla vieta a un civilista di seguire una vicenda criminale, né a un penalista di improvvisarsi esperto di contratti o di diritto di famiglia. Nelle grandi città la tendenza è alla maggior specializzazione, ma nei fori più piccoli e angusti ancora si trovano avvocati che si destreggiano ovunque sia loro richiesto.
Chiudendo questa parentesi avvocatesca, ci scontriamo con un numero davvero immenso, riferito invece solamente alla giustizia penale in senso stretto: se fotografiamo in qualsiasi momento l’attività dei tribunali di primo grado che si occupano a vario titolo di criminalità, vediamo circa 1,24 milioni di processi pendenti.
Serve qualcuno che smisti tutta questa montagna di carta. Entrano qui in gioco i magistrati che, ricordiamo ai distratti, possono sia essere “decidenti”, quindi giudici, sia “requirenti”, Pubblici Ministeri, cui spetta l’arduo compito di svolgere indagini e accusare gli imputati.
I Pubblici Ministeri si occupano prevalentemente di diritto penale, anche se di rado fanno capolino da altre parti: ad esempio svolgono una funzione importantissima quelli che lavorano presso il tribunale dei minori. I giudici, invece, possono essere della più varia natura: possono occuparsi di diritto civile, penale, amministrativo; ve ne sono alcuni specializzati nel rito del lavoro, nella sorveglianza dei detenuti; ancora importantissime le toghe che lavorano per la giustizia minorile.
I magistrati in Italia sono circa undicimila e vengono aiutati da circa ottomila giudici e vice procuratori onorari (tra cui i famigerati giudici di pace); di questo numero complessivo, circa due terzi sono decidenti; da quella frazione vanno tolti tutti i giudici con diverse specializzazioni.
Come si vede, i numeri relativi a chi è chiamato a decidere questa mole di processi sono molto più contenuti rispetto a quelli riportati qualche riga fa, relativi alle quantità di processi o di avvocati.
Già solo questi quattro dati in croce possono spiegare gli errori giudiziari – quasi stupisce che non ce ne siano molti di più! Ancora, si capiscono bene il carico di arretrato, il numero di detenuti e le loro condizioni compromesse.
A queste riflessioni, già significative, se ne aggiungono altre. Un primo spunto può essere riassunto così: per quanto la situazione dei processi penali sia critica, a tutti fa piacere vedere alcune classi di delinquenti in galera; il diritto è utilizzato come arma demagogica da ogni colore politico.
A riguardo, riporto una prima riflessione scritta sulle colonne de Il foglio da uno dei più grandi giuristi viventi, Giovanni Fiandaca: la tendenza al giustizialismo è bipartisan[2]; la differenza tra destra e sinistra si misura semplicemente sulle classi di reati sopra cui ciascuna forza si concentra. Per meglio dire, se abbiamo davanti una persona che è particolarmente sensibile sul tema della criminalità comune, generalmente perpetrata dalle classi più povere (si pensi ai furti, alle rapine, al piccolo spaccio), siamo quasi sicuri che è di destra; se invece abbiamo davanti qualcuno che s’infervora e urla “sbattiamoli tutti in galera” quando sente parlare di delitti commessi dalla gente ricca, dai cosiddetti colletti bianchi (le corruzioni, le collusioni mafiose, le truffe ai risparmiatori) allora siamo ben certi che avrà idee politiche tendenti a sinistra.
Allora possiamo accorgerci di un dato: le forze politiche vanno al potere e poi lasciano spazio agli avversari; si pensi a tutti i colori dell’arcobaleno politico toccati dal novembre 2011 a oggi, col susseguirsi di Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni. Inoltre, di recente abbiamo al potere un grigiore indistinto, capace di slanci fantasiosi e inaspettati a destra e a sinistra.
Questa osservazione, unita a quella precedente, ci fa accorgere di come la tendenza del nostro Parlamento e, purtroppo, anche del Governo sia quella di aumentare progressivamente le pene per alcune famiglie di reati: possono essere quelli che vengono portati di volta in volta all’attenzione del grande pubblico o quelli che stanno più antipatici a chi s’inventa leggi e riforme in quel breve periodo; quelle stesse persone, poi, nemmeno si curano di smussare o cancellare gli aggravamenti precedenti: le pene sono sempre più afflittive. Ne sono un esempio la riforma dei reati stradali del 2015 (di cui ho già parlato nel quarto numero di questa amata rivista[3]) e il nuovo ddl Orlando, entrato in vigore a luglio, che ha aumentato pene qua e là per i reati comuni più vari (segnatamente i furti, le rapine, le estorsioni).
Ricordiamo che il carcere può essere evitato con pene che in concreto non superano i tre anni (per l’affidamento in prova ai servizi sociali) o i due anni di reclusione (per la sospensione condizionale della pena): se si alzano le sanzioni, un maggior numero di persone rischia di finire in carcere. Poi qualcuno si stupisce del sovraffollamento carcerario, spesso curato a botte di indulti che fungono al massimo da palliativo.
I motivi di questi generali inasprimenti delle pene sono presto detti: non costano granché, né in termini di fantasia né in termini strettamente economici, che sono spesso il più grande limite all’operato dell’Esecutivo; nel frattempo, però, la forza politica di turno può vantarsi di aver fatto qualcosa per combattere la criminalità.
I costi monetari dell’innalzamento sanzionatorio sono solo indiretti e successivi: dopo anni serviranno più magistrati e quindi più personale amministrativo, più agenti di polizia giudiziaria (soprattutto penitenziaria), più strutture carcerarie adeguate, più enti burocratici per gestire le misure alternative alla detenzione. Ma di tutte queste cose si occuperà il prossimo ministro della Giustizia, nella prossima tornata elettorale.
Investire su altre misure come la prevenzione, l’assistenza, le riforme socio-economiche, la riqualificazione delle periferie potrebbe migliorare la situazione e dissuadere dalla criminalità; il problema è che quelli indicati sono dei progetti con un respiro troppo ampio, che richiedono spese iniziali elevate: sfide che non si addicono a chi vuole dei risultati purchessia, ma ottenuti in fretta.
Soluzioni anche economiche ce ne sarebbero davvero parecchie. In primo luogo viene in mente la legalizzazione delle droghe leggere: i processi e i detenuti per droga causano un dispendio enorme di energie e risorse a fronte di una sensibilità etica che è fortemente cambiata nelle ultime generazioni.
Si potrebbe anche elencare il far fruttare al meglio gli immobili sequestrati per ospitare centri di inclusione o di recupero, sportelli antiviolenza, posti che insegnino un mestiere a chiunque ne abbia bisogno – e oramai è risaputo come la miglior medicina alla delinquenza sia l’occupazione lecita.
Ancora, si potrebbe investire in una funzione “promozionale” del diritto. Senza voler tirar fuori l’idea – trita – del bastone e della carota, invogliare qualcuno a far qualcosa di buono e lecito promettendo un premio dà risultati superiori a quelli ottenuti con la minaccia di una punizione per chi sbaglia.
Ma forse, di fronte a paure sempre più grosse – dovute al terrorismo, all’immigrazione di massa malgestita, alla povertà penetrante, alla sfiducia non ancora vinta nel sistema economico nel suo complesso – si preferisce guardare al proprio orticello, gridare “dagli all’untore”, buttare la chiave della cella e avere persino il coraggio di pensare, in fin dei conti, di aver fatto qualcosa di buono.
Note
[1] L’articolo si intitola “Troppo diritto, pochi diritti” ed è liberamente consultabile sul sito del quotidiano.
[2] L’articolo, apparso su Il foglio online del 6 luglio 2017, si intitola “I danni del populismo penale: si veda l’esempio delle confische di mafia”.
[3] Il mio vecchio articolo, del luglio 2015, si intitola “Tra il farlo apposta e la sbadataggine”.