Amelia Rosselli: un universo mondo in un singolo verso
Una mattina del 1979 Amelia Rosselli (Parigi, 1930 – Roma, 1996) scrisse il suo ultimo libro, Improptu. Dopo quest’opera null’altro, solo riproposizioni di testi già scritti, già immaginati. A fare da freno ultimo alla sua attività poetica fu la scelta di morire gettandosi dalla finestra di casa sua, l’11 febbraio 1996. Soffrì molto in vita: suo padre Carlo e suo zio Nello, intellettuali antifascisti rifugiatisi a Parigi, furono ammazzati nel ‘37 su ordine di Mussolini e Ciano. La madre, Marion Cave, donna inglese, morì nel ‘49 in un ospedale inglese. E poi il lutto per Scotellaro, amico fraterno, e per Pasolini, che permise la sua prima pubblicazione.
Rosselli visse a Parigi fino al ‘37, in seguito si spostò dapprima in Svizzera, poi in Inghilterra, infine nel ‘40 migrò negli Stati Uniti, per poi raggiungere da lì il Canada. Grazie a questi suoi soggiorni apprese alla perfezione l’inglese e il francese. Fu da queste premesse che nacque l’equivoco per cui fu definita “cosmopolita” da Pasolini: definizione che la poetessa rifiutò categoricamente, dicendosi invece una “rifugiata”. Infatti, il suo trilinguismo perfetto è frutto doloroso di una fuga continua, in cerca di una pace che non troverà mai.
Le lingue si cumulano nel bagaglio di questa infanzia come effetti della persecuzione e della guerra mondiale. E fra esilio e guerra dondola in modo coatto la culla del plurilinguismo rosselliano, sino a dare l’avvio a una continua frattura del discorso, a una disforica moltiplicazione di registri[1].
Così Baldacci, che mostra nella sua monografia un’autrice piena, ricca, profonda, un’autrice che nel dolore e nell’afflizione di un mondo feroce si è esposta appieno in un linguaggio rigato da una sensazione perpetua di insufficienza. Da qui l’esigenza di riempire, ampliare, rafforzare i concetti con giochi di parole, richiami linguistici, articolazioni voraci che riducono la parola a suono malleabile; Rosselli smembra i confini che arenano la lingua nelle sue insufficienze e lascia straripare con maestria parole in apparenza libere e folli, in realtà estremamente controllate e volute. Si può concordare sempre con Baldacci quando scrive che «la poesia rosselliana scandisce un verso perentorio e vibrante, uno sguardo emozionale e cerebrale al contempo che inghiotte il mondo nell’attimo stesso in cui lo cattura sulla pagina»[2]. Una poesia quindi orchestrata perfettamente anche grazie alle conoscenze musicali di Amelia: che riuscì magistralmente a far convivere nei suoi versi musica e scrittura, come emerge nel saggio esplicativo Spazi metrici allegato alla sua prima raccolta, Variazioni belliche, su consiglio di Pasolini. Saggio che si conclude così:
La realtà è così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere. La memoria corre allora alle più fantastiche imprese (spazi versi rime tempi)[3].
Il problema della poesia è cercare di trattenere il reale. Proposito cui Amelia ritiene di poter dare seguito solo tramite l’esperienza vitale, tant’è che uno dei poeti da cui trae maggiore ispirazione è il sopra citato Scotellaro, scrittore pugliese che descrisse il mondo dei contadini, degli ultimi, con occhio attento e fedele, anche nella lingua. Nondimeno considera molto importante il lavoro di Pasolini, in particolare Le Ceneri di Gramsci. Anche Rosselli tenta questa strada, evadendo i presupposti idilliaci di certa poesia, nonché le propaggini sperimentaliste del Gruppo ‘63, che iniziò a frequentare, ma con distacco e ironia.
Per capire appieno questo personaggio della poesia del secondo Novecento può essere utile raffrontare i suoi due poemetti: Libellula, scritto nel ‘58 e pubblicato nel ‘66, e Impromptu, pubblicato nel 1981 e scritto nel ‘79. In questi due testi emerge un distillato di tutta la poesia rosselliana. Se in Libellula c’è una maggiore attenzione declaratoria, in cui l’autrice si distanzia con ironia dalle cupe vampe espressioniste di quegli anni, in Improptu viene scardinata completamente ogni aspettativa e costruito un poema manifesto in cui si compie appieno il suo afflato poetico linguistico.
E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò
stancata e ebete in un largo pozzo di paura,
mi chiamò coi suoi stendardi bianchi e violenti,
mi spinse alla porta della follia. Mi rovinò
per quell’intera durata e quel giorno intero.
Mi stese dispettosa a terra: incapace di muovere,
stanca all’alba, incapace la sera: e l’agonia
sempre più viva.
Il contadino con le lunghe mani sapeva tutta
l’ansia mia, ma egli non rivelava, il suo vero
nome da incantatore. Io lo fuggivo per valli
e terreni oscuri, ma egli sapeva il nome mio[4].
Nella prima strofa abbiamo una descrizione dell’evento poetico, un evento terribile, lontano dall’idillio di un’ispirazione metafisica; piuttosto si riscontra un delirio, ossia un uscire dal campo coltivato (de-lirium) e in questo sconfinare «in un largo pozzo di paura» ritroviamo il nucleo della sua poesia. Una «agonia sempre più viva» che scuote la poetessa e la porta a scrivere in un corpo a corpo col reale. Vediamo da questo esempio una ricerca linguistica estremamente attenta: ogni enjembement è programmato per costruire una rima[5] ben precisa; d’altra parte nel ritmo troviamo richiami, echi, che costruiscono una rima allo stesso tempo libera e incatenata[6]. Notiamo poi come le continue ripetizioni («mi prese […] Mi stese») non alterano il ritmo, non pesano, perché sapientemente collocate in un quadro musicale, che alla lettura risulta leggero.
Il contadino diventa qui il pubblico d’elezione: la poesia è carne, è forza espressiva piena. La stessa Rosselli disse che l’esperienza dev’essere nucleo portante del poetico: «Tradurre l’esperienza in parola scritta è molto arduo e credo che non soffra il dilettantismo»[7].
In questa cornucopia di senso e rimandi intertestuali si trova un cosmo profondo, che si fa pozzo. È qui che rivedo in molta parte il legame con l’I Ching, testo che tra l’altro era conosciuto e amato dalla Rosselli[8].
Spesso la Rosselli è stata definita sibillina. Niente di più falso: la Rosselli è una poetessa che con la sua copiosità, con la sua capacità di raccogliere un universo mondo in un singolo verso, riesce a farsi capire solo col potere del significante («Se il re fosse chiaro, si godrebbe insieme della felicità» è scritto nell’esagramma di sviluppo). La Rosselli attinge appunto al pozzo della lingua, affondando radici salde[9] per esprimere anche e soprattutto il dolore, la tragedia e insieme l’ironia faunesca che caratterizzano l’esistenza. Amelia è uno dei pochi esempi riusciti nella poesia italiana di uno stile linguistico che prescinde dalla lingua, in cui tutto ha un significato perché categoricamente ridotto a significante, quindi a oggetto pronunciato che induce una risposta intima, profonda e comprensibile al di là e prima della lingua. Il suo linguaggio analfabeta, come lei stessa lo definì, ricco di imprecisioni, mancanze, aporie, impurità, fa da contraltare a una volontà più profonda di essere compresa anche da chi non sa leggere, da chi sa solo ascoltare: il suo linguaggio si riempie di senso proprio nella misura in cui è esso stesso senso.Tutto questo ha il suo esito e completamento in Impromptu. In questo poemetto, diviso in tredici sezioni, la Rosselli elabora un testamento di quel che deve essere poesia. Amelia ha costruito una lingua tutta sua, una lingua impropria che nell’improprietà consegue salda natura di linguaggio. In questo ricorda molto da vicino Montale, Mallarmé e Celan: poeti capaci di ridurre la lingua alla loro maestria, riempiendo di senso emotivo sintagmi in apparenza insensati, ma ricolmi allo stesso tempo di qualcosa, una scintilla, una sorta di magia espressiva che balugina nella sua totale imprecisione. Prendiamo questi versi:
Se permisi al mio ginocchio di
toccare la terra, fu con il permesso
del granoturco che s’inchinò
al mio passaggio non obbligatorio
d’una solare necessità d’infischiarmene
di tanto in tanto di tutto ciò
che non è terra e sole e grano
e pittoresca viltà, o riposo con
le gambe non all’aria ma stese
nel ventre di quel pittorico
campo fatto d’altri […][10]
Poco prima di queste lasse la poetessa si figurava in un campo idilliaco, che qui si rivela essere un dipinto, quindi qualcosa di impoetico, dato che per lei la poesia è infischiarsene «di tutto ciò / che non è terra e sole e grano». In questi versi sta condensata una dichiarazione fondamentale di poetica. Dopo l’iniziale idillio apparente, nel poemetto emerge l’incubo di una realtà fatta di conflitti, insicurezze, una realtà in cui la stessa Rosselli veniva consumata da una malattia distruttiva, la schizofrenia. Stupisce come la Rosselli riuscisse ad arginare la follia nei suoi testi, dando vita a versi lucidissimi; tutto questo nonostante l’amarezza di un cumulo di disgrazie che ha dovuto subire e che è riuscita a rallentare più che poteva, fino a quel tragico silenzio lungo quindici anni. Eppure, prima di morire ci ha lasciato un dono prezioso: un poema che insegna il valore pieno della vita, che con queste rime si chiude:
perché siamo pronti per un’altra
storia di cui sappiamo benissimo
faremo al dunque a meno, perso
l’istinto per l’istantanea rima
perché il ritmo t’aveva al dunque
già occhieggiata da prima.[11].
Il ritmo, l’atomo della poesia, parla prima di ogni cosa ed è in esso che bisogna cercare il senso del tutto, perché noi come specie siamo fondati proprio sull’armonia di un ritmo implicito, una corona che spreme le nostre meningi a formare la musicalità della lingua. Amelia Rosselli nella sua vita travagliata è riuscita a capire dal profondo come lo scorrere delle parole ricordi l’acqua in un pozzo: basta svuotare il pozzo e pulirlo per bere l’acqua più pura. Così lei ha fatto. E credo abbia ancora tanto da insegnare a una poesia troppo vocata alla ricerca di senso, poco alla possibilità di un assoluto, ossia di una lingua poetica piena in sé stessa, una lingua in grado di emozionare, ossia affondare nel profondo dei nostri moti e rifarli emergere, sviando per un attimo quell’aporia tra inconscio e conscio che quotidianamente ci alleggerisce dal peso della realtà.
Note
[1] A. Baldacci, Amelia Rosselli, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 15.
[2] Ivi, p. 100.
[3] A. Rosselli, Le poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di G. Giudici, Garzanti, Milano 1997, p. 342.
[4] Ivi, p. 148.
[5] «La rima, in quanto indicatore di fine verso, struttura il componimento contribuendo alla fondazione della forma chiusa tradizionale. Graficamente la rima delimita lo spazio del verso e della poesia. Il ritmo, inteso come successione di accenti, indica invece il movimento interno al verso, il fluire dei suoni e delle loro cadenze.» (A. Zorat, La poesia femminile dagli anni settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale, tesi di dottorato in cotutela non pubblicata, Université Paris IV Sorbonne, Università Degli Studi Di Trieste, 2009, p. 134.)
[6] «[…] la mia regolarità, quando esistente, era contrastata da un formicolio di ritmi traducibili non in piedi o in misure lunghe o corte, ma in durate microscopiche appena appena annotabili, volendo, a matita su carta grafica millesimale»; Spazi metrici, in A. Rosselli, Le poesie, cit., p. 340.
[7] Marina Camboni, “Incontro con Amelia Rosselli (intervista del 20 febbraio 1981)”, in Donna Woman Femme, n. 1, gennaio-marzo, 1996, p. 75; citato in A. Zorat, La poesia femminile dagli anni settanta a oggi, cit., p. 94.
[8] «Volendo allargare la mia classificazione davvero non troppo scientifica, inserivo l’ideogramma cinese tra la frase, e la parola, e traducevo il rullo cinese in delirante corso di pensiero occidentale»; ivi, p. 338. L’ideogramma cinese non è nient’altro che l’esagramma dell’I Ching.
[9] Frequenti sono le citazioni rivisitate di Montale, Petrarca e altri grandi della Letteratura che percorrono tutti i suoi testi; ad es.: Libellula (p. 156), dove si cita e rivisita la poesia di Montale Falsetto, facente parte della raccolta Ossi di seppia.
[10] A. Rosselli, Le poesie, cit., p. 652.
[11] Ivi, p. 655.
Bibliografia
Baldacci, A., Amelia Rosselli, Laterza, Roma-Bari 2007.
Rosselli, A., Le Poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di Giovanni Giudici, Garzanti, Milano 1997.
Rosselli, A., Una scrittura plurale, Interlinea, Novara 2004.
Zorat, A., La poesia femminile dagli anni settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale, tesi di dottorato in cotutela non pubblicata, Université Paris IV Sorbonne, Università Degli Studi Di Trieste, 2009.