Tesori maledetti

Quando El Dorado è fatta d’onice e di oro ce n’è troppo

Il concetto di abbondanza sembra spesso coincidere con quello di benessere. I più grandi imperi della storia sono nati, vissuti e morti sotto il segno di un’abbondanza ottenuta, conservata e infine perduta. Tuttavia la gestione di ingenti e impreviste ricchezze può rappresentare un grave pericolo per la stabilità di un sistema economico, così grave da rendere certe acquisizioni di gran lunga più dannose che utili.

La disponibilità di ingenti risorse e di strumenti sufficientemente avanzati per metterle a frutto è una condizione imprescindibile per quasi ogni genere di egemonia e spesso anche di conquista sociale. La prima fonte di forza per latinità più vetusta, nel periodo in cui un’ancora improbabile Città Eterna poneva le basi di una grandezza leggendaria, fu anzitutto l’abbondanza alimentare che il Lazio dell’epoca garantiva alle genti dei Sette Colli. L’agricoltura e la pastorizia praticate sui terreni della penisola italiana erano più fruttifere di quelle che riuscivano a mettere in atto i Fenici nei loro territori. Da questa abbondanza derivò una sostenibilità di nascite anomala nel mondo antico, tale da creare un grande bacino di reclutamento per l’esercito dell’Urbs. Quando Cartagine giunse ai ferri corti con i semi di una giovane ma già esuberante potenza italica, l’idea di poterle dare una rapida, spiazzante batosta che confermasse una volta per tutte l’egemonia punica sul Mediterraneo fu presto disattesa dalla velocità ineguagliabile con cui l’esercito romano si rigenerava dopo le proprie numerose sconfitte, riuscendo sempre a inserire leve fresche nelle proprie fila.

Questo tipo di affermazione caratterizzò anche un popolo che dai Romani differì profondamente, ma che pure a essi viene spesso comparato: gli Aztechi. Originariamente questa popolazione era composta da mercenari che, migrati nella Valle di Anáhuac da uno sconosciuto territorio settentrionale urbanizzato, combatterono lungamente le battaglie dei potentati mesoamericani. Quando questi ultimi concessero loro il diritto di stabilirsi su un’isola del Lago Texcoco, non avrebbero mai immaginato che essi avrebbero trovato il modo di far fruttare magnificamente quelle terre,  applicando intensamente degli ingegnosi sistemi di drenaggio e irrigazione sul complicato bacino idrico della zona e realizzando un insieme di spettacolari strade sopraelevate intorno a una città che crebbe in maniera vertiginosa: Tenochtitlán. Quando i Conquistadores sbarcarono in America, questa città era la punta di diamante dello sviluppo urbanistico e tecnologico del Nuovo Mondo e soltanto potenti realtà politiche come la confederazione delle città maya dello Yucatán potevano considerarsi libere dal suo spesso sanguinario predominio. I rapporti di subalternità si erano invertiti, proprio come era accaduto ai Romani rispetto alla civiltà di Albalonga, alle stirpi sannite della dorsale appenninica centromeridionale, agli Etruschi, ai Greci e ai Punici. La regione lacustre e vulcanica che si estende nel cuore del Messico era stata per moltissimo tempo una terra di grandezza: si pensi all’opulenza monumentale di Teotihuacan o alla Pirámide Tepanapa, nell’area archeologica di Cholula, che è la più grande piramide finora costruita dall’uomo.

Pietra del Sole calendario azteco

Pietra del Sole calendario azteco

Certo, la forma di ricchezza più capace di stimolare il nostro immaginario ben pasciuto e meno attento ai bisogni primari è diversa da quella più direttamente connessa all’approvvigionamento alimentare. Gli Spagnoli che sterminarono gli Aztechi ci assomigliavano in questo. Le immagini che popolavano la loro fantasia erano fatte di metallo prezioso, gemme e altre cose che certamente non si mangiano. Quando conobbero i nativi, ciò che delle loro civiltà li attrasse maggiormente fu proprio questo genere di ricchezza. Certo, di oro in America ce n’era parecchio da rubare, ma spesso non era quello che la loro immaginazione gli mostrava. L’oro dei gioielli dei nativi mesoamericani solitamente non è affatto puro, perché essi amavano mescerlo all’argento al fine di dargli una tinta più nettamente gialla. Questo dovette produrre qualche delusione, ma ancor più dovette provocare l’abbondante uso dell’onice nella creazione di oggetti cultuali e ornamenti per i palazzi. Particolarmente utilizzata dai Maya devoti a Ixchel, il cui culto aveva per epicentro i santuari marittimi di Isla Cozumel, l’onice levigata, quando si trova esposta direttamente alla luce del sole, riluce di una tonalità quasi indistinguibile da quella dell’oro. Ci si può immaginare la delusione provata dagli invasori europei nell’arrampicarsi faticosamente in cima alle ripide scale di una grande piramide maya, dopo averne sterminato i guardiani, agognando i fregi e gli idoli d’oro avvistati sulla sommità per poi ritrovarsi tra le mani un mucchio di sassi scuri, tanto belli quanto privi di valore. El indio Dorado era tutto lì, in quei sassi lisci, policromi e cangianti, creati in abbondanza dalle eruzioni vulcaniche: un fraintendimento. Di fraintendimenti ve ne furono davvero tantissimi. Molti furono culturali, come la convinzione che la figura del serpente piumato fosse riconducibile a quella cristiana di Satana. Moltissimi, però, furono “desiderativi” e riguardarono proprio le risorse e le ricchezze che i Conquistadores si aspettavano di ottenere. Nel sottosuolo dell’America c’era anche l’oro vero e puro, ovviamente, soprattutto quello di origine alluvionale che abbondava lungo il corso del Cauca e nell’Ecuador settentrionale. Qui inizialmente gli Spagnoli trovarono gli smeraldi che la civiltà Chibcha, stanziata tra Ecuador e Costa Rica, forniva in cambio di quell’oro alle popolazioni ivi residenti, quindi la regione fu chiamata Esmeraldas. La terra dei Chibcha invece fu chiamata proprio El Dorado, perché si volle credere che costoro avessero preso il proprio oro da un popolo misterioso che abitava i recessi del loro stesso territorio e non dai popoli di quegli altri territori che erano stati già abbondantemente razziati. Così gli Spagnoli chiamarono “terra degli smeraldi” il territorio dove era possibile trovare l’oro e “terra dell’oro” il territorio dove era possibile trovare gli smeraldi. Ancora oggi ci sono sognatori che organizzano spedizioni per trovare El Dorado o altre famose località leggendarie dell’America centromeridionale che spesso a questo mito si sovrappongono, come la città perduta di Z, che nel 1920 l’esploratore Percy Harrison Fawcett disse di avere scoperto da qualche parte lungo l’alto corso del Rio Xingu, Akakor o l’incaica Paititi, nascosta chissà dove tra le foreste pluviali che si addensano a est delle Ande.

Scultura della Dea Ixchel

Scultura della Dea Ixchel

Gli Spagnoli e i Portoghesi caricarono all’inverosimile le stive dei loro galeoni di tesori e ne portarono tonnellate in Europa, combattendo contro i corsari delle altre nazioni e i pirati che, senza appoggiarsi ad alcuna autorità nazionale, presto si organizzarono nei Caraibi per intercettare e depredare questi portentosi bastimenti. Non c’è da meravigliarsi che il Seicento e il primo Settecento fossero stati anni di avventure favolose e di situazioni molto singolari per chi navigava o viveva lungo quelle rotte. Quello che avrebbe presto meravigliato gli uomini dell’epoca fu la conseguenza a medio termine di tanta nuova ricchezza immessa nei circuiti distributivi del Vecchio Mondo: la devastante inflazione che colpì con una veemenza completamente imprevista tutti i principali mercati occidentali. Fu una vera e propria crisi economica di tipo inflattivo e naturalmente danneggiò anzitutto i regni iberici. I prodotti artigianali e agricoli divennero così costosi che i cittadini delle grandi potenze marittime preferivano importarli dall’estero. Il valore dei metalli preziosi rimase per un bel po’ molto ribassato, rendendo gli investimenti nel settore un campo minato e il costo di molte merci un valore estremamente fluttuante. Se il diffondersi dell’inflazione nel continente parificò presto i prezzi dei manufatti prodotti solo nelle zone occidentali, prodotti agricoli a basso costo rimanevano importabili dall’Europa dell’Est. I signori locali iniziarono quindi a vincolare sempre più i contadini alla terra, tramite l’intensificazione del servaggio e l’indebitamento. Alla fine del XVI secolo, dall’America arrivarono però i nuovi prodotti agricoli: tabacco, cacao, mais, pomodori e patate che cambiarono sia l’economia, sia le abitudini alimentari europee.

Così l’umanità si confrontò, come mai prima di allora, con la componente virtuale della ricchezza moderna e contemporanea. Se il rapporto tra domanda e offerta può essere descritto con equazioni precise e predittive, domanda e offerta in se stesse rimangono sempre un’incognita. Poiché l’utile delle merci è trasceso dal senso di pregio che deriva dalla loro rarità, la natura spesso ipotetica e relativa di quest’ultima può provocare danni enormi a un sistema economico. Questa verità è tutt’ora alla base di molte emergenze economiche contemporanee, come ad esempio quella connessa al valore degli immobili che un tempo era fonte di grandi certezze per gli investitori.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

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