Può esserci un genio dietro ogni angolo? Pensieri sul conflitto tra abbondanza e grandezza
Più di un genio speculativo si è rotto la testa nel tentativo di isolare una definizione del genio artistico. Non vorrei, in questa sede, né riassumere le principali proposte né valutarne i meriti o demeriti. Si può però prendere le mosse da alcune concezioni intuitive per sviluppare qualche riflessione.
Da un lato, l’idea ovvia che il genio sia qualcosa di raro (e di tanto più prezioso, in effetti, quanto più raro) ci potrebbe portare a concepire un criterio puramente quantitativo e puramente relativo per ritenere qualcuno un genio: potremmo cioè pensare che la persona più brillante ogni milione, o miliardo, sia necessariamente – per definizione – un genio, o che lo sia ognuno dei capiclasse di ogni generazione secondo una percentuale arbitraria, purché piccola. Per assumere questa prospettiva non servirebbe disporre di un metro affidabile e condivisibile per mettere in ordine dal peggiore al migliore tutti gli uomini: basterebbe ritenere che, se mai un metro del genere esistesse, esso sarebbe sufficiente, da solo, per risolvere l’uso della parola “genio”, cioè per distillare il suo senso.
Da un altro lato, qualcosa nelle sfumature che associamo al concetto di “genio” fa resistenza all’idea che compilare una specie di scala dei QI getti realmente su quel concetto tutta la luce di cui ha bisogno. L’intensità della comunicazione che l’opera artistica di un genio è capace di trasmettere sembra non lasciarsi quantificare da una semplice frazione, dal trovarsi un uomo nel top-one-percent della sua epoca. E qui a ben vedere ciò che non va nel criterio quantitativo non è un eccesso di relatività, ma un eccesso di assolutezza. Esso sembra attribuire il genio a qualcuno, e negarlo a qualcun altro, sulla base di un valore intrinseco, a prescindere da tutte le dipendenze: e, in particolare, a prescindere dal fatto che ciò che viene comunicato in un’opera artistica dipende anche da chi riceve la comunicazione, e non solo da chi la fa.
Questo solleva un problema che mi sembra molto interessante. Alle opere di coloro che consideriamo geni in modo non controverso – Michelangelo, Shakespeare, Beethoven… – dedichiamo un’attenzione fuori dal comune. Al loro lavoro ci accostiamo forse anche con riverenza, ma soprattutto con una disposizione a far fatica, a investire una dose consistente di attenzione, di impegno e, banalmente, di tempo. Si innesca qui il più elementare, ma anche il più significativo, dei circoli ermeneutici: quando passeggiamo, già stanchi, per la grande galleria della pittura italiana al Louvre studiamo con cura quasi maniacale Giotto, Botticelli, Leonardo, Caravaggio, e questo studio ci appaga, ci arricchisce e ci stimola; ma questo studio lo intraprendiamo, e lo troviamo così felice, anche proprio perché sono Giotto, Botticelli, Leonardo e Caravaggio. Allora consideriamo un’opera geniale perché ci piace, o ci piace perché la consideriamo geniale? Non dipende in misura determinante il nostro apprezzamento di un’opera dall’investimento che facciamo nel cercarvi la grandezza che ci aspettiamo di trovarvi? E la grandezza che ci aspettiamo di trovare in un’opera non può dipendere in misura determinante, tra le altre cose, dal fatto che la tradizione l’abbia etichettata come geniale?
Ecco in che senso il genio è relativo – e più relativo, per così dire, di quanto una mera percentuale lascerebbe supporre. Ciò diventa ancora più interessante quando considerazioni simili vengono applicate alla contemporaneità. In mancanza di quella falsariga che per il passato è offerta dalla tradizione, in mancanza di un’autorità che ci dica chi merita il fiore della nostra attenzione e chi no, siamo soli o quasi soli di fronte alla scelta di dedicare a un quadro o a un libro poco o tanto tempo, poca o tanta energia intellettuale. Se sbagliamo per difetto, è facilissimo che qualcosa di grande ci sembri piccolo; se sbagliamo per eccesso, è possibile che qualcosa di piccolo ci sembri medio o persino grande. Anche con riferimento a opere del passato, naturalmente, è possibile commettere l’errore di non dedicare abbastanza attenzione a un gigante e di liquidarlo quindi altezzosamente, con gravissimo sacrilegio, come un produttore di patacche («Bacon? Solo cattivo gusto»); così come è possibile, per anticonformismo o anche per il gusto dell’esperimento, dedicare troppa attenzione a qualcuno di ordinario, a qualche fante dell’esercito degli artefici che, generazione dopo generazione, lavora per dare ai generali qualcuno da sovrastare, e quindi esaltarlo spropositatamente («Derain? Molto più grande di Picasso»). Ma la cosa è urgente soprattutto con riferimento al presente.