Su I miserabili di Victor Hugo
Di uno scrittore baciato dall’abbondanza come Victor Hugo, I miserabili (1862) sono forse il grado massimo di proliferazione. E non soltanto per la lunghezza, mille pagine in corpo nove nella vetusta edizione Mursia in mio possesso, forte della traduzione di Renato Colantuoni che dopo settant’anni appare quasi impeccabile e spesso di sorprendente vigore stilistico. Né bastano la vastità dell’intreccio, la pletora dei personaggi e delle situazioni, o la mole di materiale storico, filosofico, sociale, antropologico immesso a ogni paragrafo a renderli un esempio insuperato di gigantismo romanzesco. Più rilevante è che, contrariamente ad altri mastodontici affreschi ottocenteschi, predominino le spinte centrifughe. Abborracciando un calcolo, il settanta per cento del testo è marginale ai fini della cornice narrativa. Eppure non ci si annoia.
Ma di cosa parla questo coerente diluvio di parole acefale, capolavoro cercato e forse fallito, fertile canovaccio di sceneggiati e film? Per riassumere la trama due sarebbero le strade. O si fa una sinossi che da sola bruci le ottomila battute dell’articolo, o ci si limita a dire che nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, in Francia, un ex forzato, convertito da un vescovo di provincia in odore di santità a uno strano miscuglio di cattolicesimo e panteismo stoico, dedica la propria vita alla protezione della figlia di una prostituta di cui inconsapevolmente aveva accelerato la caduta. Le disavventure di questi due miserabili, un vecchio e una ragazzina braccati da un poliziotto che è l’archetipo del diritto umano a scapito della legge divina, si intrecciano con la fallita rivolta parigina del 1832, episodio minore di quella sessantennale scia di sommosse che dalla presa della Bastiglia giungono al 1848.
Come segnala il titolo, Hugo vuole scrivere la grande epopea sulle lotte sociali del suo tempo. Ma la miseria non è il suo forte, né forse la temperie romantica, di cui lui è considerato l’alfiere, ha gli strumenti per ritrarre il neonato proletariato urbano. Per un romanzo francese davvero operaio bisognerà aspettare Zola.
Pur attento indagatore delle pieghe minime del reale, Hugo proietta ovunque un alone mitico. Dunque le catapecchie diventeranno templi del sopruso, micragnosi borsaioli divinità del male, studentini anemici tragici Robespierre. Non basta mettere in bocca agli abietti il loro gergo per renderli plausibili. Il mimetismo entrato in folla dalla porta se ne scappa dalla finestra, rigorosamente a ogiva. Nonostante le preoccupazioni etiche e sociali, Hugo non resiste al lussureggiare del proprio talento, e quello che ne viene fuori è un romanzo in cui l’avvedutezza della struttura narrativa si ritrova costantemente esondata dalla bulimia autoriale.
Pur sorvegliata da una padronanza stilistica ferrea, la scrittura germina per superfetazione dagli elementi del racconto. Si intuisce che il narratore saprebbe dire più del già molto che sta dicendo, l’inchiostro gli scivola dalle mani, ogni descrizione di tre pagine potrebbe distendersi in sei, ogni spaccato interiore su un personaggio riuscirebbe con facilità a decuplicarsi. Il procedimento tipico è infatti l’accumulo. Ovunque troviamo elenchi ritmati di cui anche in traduzione si coglie l’incanto fonosimbolico, parate di significanti che si srotolano per il puro gusto di pronunciarsi.
E il fallimento parziale dei Miserabili deriva proprio dall’incontinenza dell’autore, incapace di frenare riflessioni e affondi che di fatto surclassano il motivo centrale. Probabilmente Hugo credeva di arginare la dispersione a colpi di trama e stile. In effetti è in virtù della monumentale struttura narrativa e della freschezza del periodare che il romanzo può spaziare dalla riflessione etica al quadretto di costume all’aneddoto scollacciato alla bordata metafisica quasi sempre senza sbalzi, eppure troppo spesso si sentono cozzare progetto ed estro. Manca quella simbiosi tra intenzione segreta e capitoli-paragrafi-capoversi-frasi-parole che contraddistingue il capolavoro.
Insomma Hugo poeta fa di continuo lo sgambetto a Hugo romanziere, sabotando l’impianto con l’esplodere lirico e saggistico delle digressioni, troppe e troppo telluriche per funzionare in un romanzo negli intenti tradizionale. Infatti più delle non sempre scorrevoli parabole narrative rimangono i dettagli, la descrizione iniziale della ghigliottina, due o tre gioielli di oratoria rivoluzionaria in bocca a conciatori analfabeti, certe dichiarazioni d’amore per Parigi con la sua feccia di turlupinatori indomabili e finti mendicanti guerci e scugnizzi che vanno a farsi mitragliare cantando, l’inutile scena sublime di un giacobino ottuagenario che rifiuta l’estrema unzione, nonché la discesa del protagonista nel sistema fognario della capitale francese, latrina di una nazione, che riecheggia le catabasi degli eroi classici.
La ricchezza produce scorie, ogni crapula diventa feci e ogni abbondanza, altro nome di Parigi, prima o poi scava un pozzo in cui nascondere quanto non sa bruciare. I Miserabili appaiono quindi come una di quelle cattedrali sovraccariche in cui, invece dell’imponenza furibonda dell’insieme, commuove il grugno mefistofelico di una gargolla, un tabernacolo sbucato mentre oppressi dal silenzio ci si voltava per uscire. Quell’energia in eccesso che azzoppa la gestazione del testo è in grado a sprazzi di salvarlo dalla forma che si vorrebbe imporre. Del resto Hugo incarna lo scrittore cornucopia, l’incontenibilità della creazione verbale, è colui che le Muse lattaro più ch’altri mai prima di tutto in senso quantitativo. Sterminata è la sua produzione sia in poesia sia in prosa, perfino per un secolo ad alto vitalismo letterario come il diciannovesimo. Non ha senso dunque chiedergli buon gusto, né abilità a dosare. Ma l’abbondanza non è questione soltanto di pagine pubblicate. Ha invece a che fare con il gioco della scrittura, con ciò che le parole tendono a fare alle cose di cui fingono di parlare per ricoprirle come rampicanti. La prosa dei Miserabili, perciò davvero romantica, consiste nello spalancamento dell’infinito nel finito. Prendi qualsiasi oggetto finito – così sussurra il basso continuo della geniale logorrea di Hugo – prendi qualsiasi entità che ritieni finita e io ti mostrerò che volendo se ne può parlare all’infinito.
«Quando le porte della percezione si apriranno – scriveva Blake – ogni cosa si rivelerà all’uomo per quello che è: infinita». Ogni granello di sabbia diventa per la coscienza un complesso di stratificazioni infinitamente predicabili. (Oggi fisica delle particelle e meccanica quantistica, con i loro enigmi sulla costituzione della materia, forse rendono simili assunti meno alieni che centocinquanta anni fa.) Sedimentata nella scrittura di Hugo, l’esperienza romantica rintraccia ovunque, invece degli oggetti, lo sporgersi cangiante del soggetto sul mondo: non tanto le cose, insomma, quanto il percepirle in molti modi, e a forza di specchiarsi in questo equivoco ha conferito all’inesauribilità della mente il più vacuo e assordante dei nomi: Dio. Tuttavia, invece di trovare la scintilla divina nelle cose, come credeva Hugo, il poeta romantico sancisce la divinità del proprio sguardo.
La riscoperta del panteismo non svela un nuovo-antico modo di conoscere, quello intuitivo, quanto un rito celebrante l’irriducibilità dell’umano. Ma di fronte all’uomo-dio le cose, più che infinite semmai innumerevoli, rischiano di affogare nell’abbondanza del pensiero. Il pozzo è dietro l’angolo, no?