Ci sono luoghi al mondo nei quali le persone hanno una luce negli occhi che le illumina dall’interno e si riflette sulla realtà in maniera particolare, poliedrica, come in un prisma, cambiando qualcosa che non ci si aspettava. Questi luoghi colmano di bellezza e freschezza il loro bagaglio culturale, tanto che lì la vita sembra più piena. La Romania è uno di quei posti.
La destinazione di questo viaggio è stata incerta fino a un paio di mesi prima della partenza. Sapevamo di voler realizzare un reportage documentaristico che arricchisse le nostre esperienze da portare tra queste pagine, ma continuavamo a saltare di palo in frasca per scegliere la storia da raccontare. Nei reportage, prima di scegliere la destinazione si sceglie la storia, ma avevamo più di un’idea e non volevamo risolverci a decidere utilizzando la proverbiale monetina. Poi, un giorno di maggio, qualcuno propose: «Facciamo un festival sulla cultura romena!», et voilà. Avevamo trovato una destinazione, ma purtroppo ci mancava una storia. Di che parlare in una terra ancora in corsa per uscire dall’automatismo del controllo dittatoriale, nonostante i ventinove anni trascorsi dalla rivoluzione? Abbiamo iniziato a pensarci su, ma non volevamo che il nostro diventasse un reportage ristretto al folklore locale, né che portasse soltanto le tracce della rinascita dello stato romeno, quindi abbiamo dato ascolto a una soffiata proveniente dall’esterno che ci consigliava di dare uno sguardo a qualcosa di insolito: i cimiteri. Ci siamo documentati e informati e abbiamo scoperto un mondo affascinante e particolare, che ci ha letteralmente stregato. Abbiamo esteso il raggio di ricerca anche ai luoghi di culto e alla visione che il popolo romeno ha della morte, dando vita a un reportage emozionante che ci ha portato a scoprire dettagli, mondi e visioni sconosciuti ai più.
Così è iniziata l’avventura e siamo partiti, armati di penne per gli appunti e macchine fotografiche, occhi per vedere e orecchie per intendere. Anche se dalle nostre ricerche sapevamo già prima di partire che i cimiteri romeni non sono (come nella maggior fetta della tradizione cristiana occidentale) lugubri luoghi di lutto, ma tranquille distese di prato disseminate da croci spoglie del dolore dei vivi, pensavamo comunque di esserci imbarcati in una tanto avvincente quanto insolita sorta di danse macabre in lungo e in largo per il paese. Be’, ciò che abbiamo scoperto una volta giunti a destinazione è stato ben diverso: non avevamo fatto i conti con la gente, quella meravigliosa distesa di persone accoglienti, allegre e gioiose che ci hanno accolti e rivelato i loro segreti con calore e disponibilità. Così abbiamo capito che anche nella morte è la gente a fare la differenza; chi resta nel mondo dei vivi può scegliere due strade: quella del dolore acuto che rende lugubre e difficile il ricordo, o quella della gioia e della pace, che dissemina i cimiteri romeni di fazzoletti di prato picchiettati da piccole croci intagliate nel legno – come nella maggior parte dei villaggi e delle città – a volte dipinte a colori vivaci e incise con rime ironiche – come nel caso del più famoso cimitero del Maramureș, il Cimitirul Vesel (o “Cimitero della gioia”) nella cittadina di Săpânța.
È il modo stesso in cui le persone trattano la morte a essere sconvolgente e affascinante. Ci trovavamo nel Maramureș, nel paesino di Hoteni, quando ne abbiamo avuto testimonianza diretta. La nostra ospite Ioana ci stava raccontando delle sue esperienze di vita quando le campane della chiesa vicina hanno preso a suonare. Ioana si è zittita aggrottando la fronte e ha chiesto con partecipazione, ma serenità: «Oh, chi è morto?». Quando in casa è entrato un suo vicino per dirle che era morto Grigoriu, si sono messi a ricordare con allegria e spensieratezza gli episodi della vita del defunto, davanti a un bicchierino della grappa locale prodotta solo in casa dalle massaie. Le campane non suonavano a morto, ma a festa.
Ecco cosa ci ha spalancato il loro mondo: il perfetto sillogismo della loro logica della morte. La consapevolezza che il defunto aveva vissuto la sua vita piena e che era la sua ora di festa per averne iniziata una nuova. Il morto non era una vittima, quel giorno, ma il protagonista. E questo è uno dei loro princìpi fondamentali.
Avevamo pensato a un titolo calzante per questo racconto di morte allegra e di vita entusiastica che le aleggia attorno, che è appunto quello che leggete in questa introduzione: La morte che ride. Non c’era titolo migliore in questa circostanza… se non che, laggiù, ci siamo resi conto che non è solo la morte a ridere. Ride anche la morte, ma non è certo l’unica. Le persone ridono, gli animali ridono, le montagne, i ruscelli, i laghi, i villaggi stessi con le loro mura di pietra, le strade, i campi… in Romania tutto ride e sorride e manifesta gioia in maniera estrema e del tutto spontanea. Ce l’ha rivelato Sorin Rebreanu, il primo cittadino romeno col quale abbiamo parlato appena atterrati a Timișoara (che abbiamo incontrato presso un pozzo, degna apertura del nostro reportage, in quanto l’esagramma di sviluppo di quello estratto per il numero in corso – L’abbondanza – è, per l’appunto, Il pozzo); ce l’ha confermato Ioana in Maramureș, per continuare con le numerose persone delle quali abbiamo incrociato i cammini in Transilvania e a Bucarest. E, soprattutto, ce l’ha svelato la luce nei loro sguardi, che non aveva bisogno di alcuna spiegazione.
Nel corso del viaggio abbiamo trovato anche altri risvolti di questo paese, ed ecco che, una volta ritornati, ci siamo resi conto che la varietà di argomenti era troppo ampia per rimanere ristretta ai cimiteri. Abbiamo scelto un titolo che racchiudesse tutto questo e che fosse sufficientemente di richiamo per tutte le parti che compongono il reportage. Così è nato il lavoro finito e completo, sotto il nome di Romania. Il pozzo delle storie. In questi giorni su La Tigre di Carta e alla Corte dei Miracoli, durante il mese di festival dedicato alla Romania, vi racconteremo tutto attraverso le rubriche online e gli eventi del festival: Ilaria Iannuzzi illustrerà la particolarità dell’arte e dell’architettura romena, slittando dai cimiteri veri e propri ai palazzi e ai luoghi di culto; Luca Bernardi si dedicherà invece alle persone meravigliose (e alla sorprendente varietà umana) che si sono fermate a parlare con noi e che hanno condiviso con gioia ed entusiasmo gli episodi più belli, più neri, più spaventosi e più spensierati delle loro vite e della loro cultura di allegria, sempre col sorriso. Io mi dedicherò alla varietà paesaggistica e strutturale dei paesini montani del Maramureș e della Transilvania che abbiamo attraversato, il tutto accompagnato dalle suggestive fotografie che Sergio Bernini, Camilla Giannelli e io abbiamo scattato a testimonianza di quanto scritto fino ad ora. Avremo anche dei video, girati dalla nostra Camilla e montati da Giulio Pierrottet, che non ha viaggiato con noi fisicamente, ma lo farà attraverso la preparazione della presentazione di questo reportage.
Il Festival, che abbiamo chiamato Oglindă (ovvero “specchio” in lingua romena), si aprirà con la presentazione di questo lavoro. Vi aspettiamo. Mulţumesc.