La pienezza svuotata

L’altra faccia dell’abbondanza nel Macbeth di Shakespeare

«Se fossi morto solo un’ora prima / di questo evento, sarei vissuto felice, / perché da questo istante / non c’è più nulla di serio nell’essere mortale»[1].

Quando pronuncia queste parole Macbeth ormai ha tutto. Guidato dalla profezia delle tre streghe e dalla sua ambizione ha ucciso Duncan, re di Scozia, e usurpato il suo trono. Si potrebbe dire, con le parole di Marlowe, che ha raggiunto «Quella beatitudine e unica felicità / Che è il dolce possesso di una corona»[2]. Ha ottenuto cioè il massimo che si potesse sperare all’epoca, la regalità. Al tempo in cui è vissuto il Macbeth storico (prima metà dell’XI secolo), il re costituiva l’unica pop star del regno. Era più che un politico che aveva in mano le redini del regno: egli era anche il rappresentante in terra dell’ordine gerarchico stabilito da Dio stesso. Molti sovrani si riteneva fossero dotati di poteri sovrannaturali, fra cui la capacità di guarire alcune malattie con la sola imposizione delle mani, motivo per cui venivano chiamati “re taumaturghi”. Il re godeva insomma di una vastissima fama, deteneva il potere politico e giuridico e i legami di fedeltà e devozione dei sottoposti erano garantiti dalla sacralità di cui era investito. Ebbene, Macbeth ottiene tutto questo: fama, potere e lustro. Ma in tutta questa abbondanza gli manca qualcosa che chiunque altro ha. Il sonno. Egli non dorme a causa dei sensi di colpa che lo tormentano, a causa della paura di essere scoperto. Subito dopo l’omicidio racconta alla moglie: «M’è parso udire una voce che gridava: “Non / Dormirai più! Macbeth scanna il sonno – / Il sonno innocente, il sonno che dipana / la matassa imbrogliata dell’ansia”»[3]. In questo passo la maestria comunicativa di Shakespeare ci investe delle angosce che assalgono un uomo consapevole di aver demolito l’ordine naturale in cui credeva solo per vederne il prezzo troppo alto.

Macbeth è un eroe che muta costantemente all’interno dell’opera. Inizialmente egli è descritto come l’Achille dell’Iliade di Omero, ovvero come un guerriero impareggiabile capace, da solo,  di rovesciare le sorti della battaglia.

Johann Heinrich Füssli, 'Lady Macbeth riceve i pugnali', 1812

Johann Heinrich Füssli, ‘Lady Macbeth riceve i pugnali’, 1812

Successivamente avviene l’incontro con tre streghe che predicono il futuro a Macbeth, preannunciandogli che egli sarà re. Questa premonizione scuote l’eroe, poiché egli sa già cosa fare per diventare re al più presto. In questo modo viene evidenziata la grande capacità immaginativa di Macbeth. Egli infatti pensa per immagini e parla tramite metafore, cosa che contribuisce al senso generale di ambiguità che attraversa tutta la tragedia. Ad esempio, quando si convince a uccidere il re, gli appare un coltello, ed egli ne conclude che «è l’assassinio che ai miei occhi prende / corpo così»[4]. Da questa frase possiamo evincere che Macbeth non si autoinganna mai. Egli è sempre conscio delle conseguenze delle sue azioni almeno tanto quanto è conscio della sua smania per il potere. La moglie, al contrario, non vede chiaramente le implicazioni del regicidio, ma  insiste perché l’omicidio venga compiuto ed esorta il marito a non dare adito all’immaginazione, temendo che possa perdere il senno. Ironicamente, sarà invece la moglie di Macbeth a impazzire e suicidarsi, proprio perché non ha saputo metabolizzare l’accaduto; cosa che invece al marito riesce grazie alle immagini ricorrenti. Ottenuto il titolo di re, alla paura di essere scoperto si aggiunge la paura di essere spodestato; la stessa profezia che gli ha predetto che sarebbe diventato re gli ha anche anticipato che non avrebbe avuto eredi al trono. Egli quindi decide di far uccidere il suo vecchio compagno d’armi, Banquo, che aveva assistito alla profezia e che doveva essere colui dal quale sarebbe discesa la stirpe dei re. Quest’altro omicidio è seguito da un’apparizione, visibile solo a Macbeth, del fantasma di Banquo, che siede al suo posto durante un banchetto con gli altri nobili. In questa occasione tutti hanno modo di constatare l’instabilità mentale del re. Per questo motivo molti dei nobili se ne vanno dalla Scozia, privando Macbeth dei suoi più stretti collaboratori.

Possiamo quindi notare che l’abbondanza di cui egli godeva si trasforma ben presto in una mancanza di rapporti umani che accentua il solipsismo del protagonista. Senza i baroni non è più in grado di governare correttamente il regno, che cade mortalmente in rovina. Vi è dunque il passaggio da un buon regno, quello di Duncan, a quello di un tiranno mosso dal proprio capriccio e dalle proprie angosce, sospinto sempre più in un vortice di crudeltà, cinismo e  timore di perdere il trono.

In tutto lo sviluppo del personaggio possiamo evidenziare due temi in sottofondo, legati a doppio filo, che forniscono la cifra dell’intero poema: il senso della vita e il rapporto con il destino. Macbeth, non senza ambiguità, in parte crede alla profezia che gli è stata fatta e in parte ne nega la validità, perpetuando un tentativo di opporvisi. Il regicidio ne è un esempio: egli è consapevole che se è davvero predestinato a diventare re lo diventerà senza muovere un dito. Eppure quando Duncan annuncia che sarà il figlio a ereditarne il trono, Macbeth si convince che il solo modo di ottenere il regno è quello di uccidere Duncan alla prima occasione, idea che sembra contraddire il precedente abbandono al destino. Lo stesso si può dire della successione al trono: egli infatti vuole opporsi alla predizione delle streghe per cui sarà la discendenza di Banquo a regnare, e tenta quindi di uccidere sia quest’ultimo sia il figlio. Forse proprio l’uccisione del re l’ha convinto di essere l’artefice del proprio destino, idea che rimarrà ben incardinata nel personaggio fino all’ultimo respiro: egli infatti consulterà nuovamente le streghe per scoprire e uccidere chi può detronizzarlo. Gli viene predetto che potrà essere ucciso soltanto da un uomo non nato dal ventre di una donna, e anche quando si troverà davanti un uomo del genere si getterà su di lui a spada tratta rimarcando la convinzione di avere il proprio destino in pugno. Dall’altro lato, il tema della mancanza di senso della vita si impone in ogni soliloquio di Macbeth. Nella sua lotta disperata contro il destino egli sente su di sé il peso insostenibile di un’esistenza senza scopo, di un mondo in cui le azioni non hanno né direzione né valore; peso che tenta di scrollarsi di dosso con tutte le forze, ma invano. Questi tratti rendono Macbeth un eroe tragico che contemporaneamente comprende i propri limiti e cerca disperatamente di superarli, opponendosi a un destino che alla fine lo sovrasta. La tragicità del non-senso della vita emerge nella paura di Macbeth di aver rinunciato per sempre al sonno per garantire il trono alla stirpe di Banquo. Proprio questa paura sta alla base di tutte le sue azioni. Essa può essere definita come una paura del destino stesso, del suo doversi per forza compiere, dell’interrogativo lasciato aperto dalla profezia incompleta; paura che pone il nostro eroe davanti al baratro dei propri pensieri negativi e ossessivi riguardo all’omicidio e alla colpa a esso correlata.

È interessante notare che Shakespeare non si sbilancia mai nel giudicare negativamente Macbeth. Forse prova pena per lui, guardandolo come se fosse un pesce nella rete del destino che cerca inutilmente di liberarsi. Shakespeare si limita a esplorare l’essere umano in tutte le sue sfaccettature, senza pregiudicarlo da un particolare punto di vista. La scena finale anzi ribadisce il tema dell’equivoco nella tragedia: di Macbeth il macellaio non resta che la testa mozzata, per cui un altro macellaio deve aver ripetuto il regicidio che Macbeth aveva compiuto nei confronti di Duncan, in un’ironica circolarità che sembra rimarcare il senso d’ambiguità espresso nell’opera.

Note

[1] W. Shakespeare, Macbeth, a cura di Nemi D’Agostino, Garzanti, 2017, p. 61.

[2] C. Marlowe, Tamburlaine the Great, atto II, scena 7, vv. 28-29.

[3] W. Shakespeare, Macbeth, cit. p. 49.

[4] Ivi, p. 45.

di Giorgio Cignarale

Autore

  • Studente di filosofia a Milano con un concentrato di energie che, unite alla curiosità, lo spingono a interessarsi di moltissimi temi. Anche se apparentemente "contenuto" è mosso da forti passioni ed è sufficientemente versatile da non soffermarsi mai troppo su un solo punto.

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