Gli anni in cui sgretolammo il cielo

In una chiacchera da bar fatta poco più di vent’anni fa, ero in pratica un novello iscritto all’Università degli Studi, fra amici ci chiedevamo oziosamente in quale periodo storico ci sarebbe piaciuto vivere la nostra gioventù. Ricordo ancora le facce, tra lo stupito e lo scandalizzato, mentre dicevo che avrei voluto avere vent’anni negli anni Settanta. Per la maggior parte dei miei amici che, come me, avevano vissuto gli «anni di piombo» da fanciulli, quegli anni apparivano terribili. Tutti eravamo concordi, ad esempio, che i telegiornali Rai del rapimento e del ritrovamento del corpo di Aldo Moro costituissero il primo ricordo definito di un avvenimento pubblico. Decisamente non un bel ricordo.

Tuttavia io, di quegli anni, non ricordavo solo le cose brutte, le facce di sgomento che talvolta assumevano gli adulti quando ascoltavano i telegiornali. Ricordavo l’atmosfera del quartiere popolare in cui ero cresciuto (Calvairate-Molise). Un clima che portava adulti e bambini a vivere quotidianamente fuori, per la strada e che permetteva di seguire uno stile vita opposto a quell’inscatolamento morbido in cui, a partire dai primi anni Ottanta, le televisioni private ci avevano inesorabilmente condotto. Ricordavo anche gli adulti parlare. Discutere dell’uguaglianza tra maschi e femmine, oppure di divorzio, argomenti di cui comprendevo bene già il senso. Ascoltavo gli adulti confrontarsi su temi come l’aborto o la legge Basaglia, cose di cui avrei capito il senso e l’importanza solo molto più avanti, ma che, a ritroso, mi sembravano argomenti ben più interessanti delle chiacchere sulle sigle dei cartoni animati a cui poi avrei fatto (piacevolmente) l’abitudine.

Grazie a quei ricordi ero abbastanza impermeabile ai giudizi ideologici sul quel periodo che, durante gli anni Ottanta ma ancora nei primi anni Novanta, avevano finito col rimarcare solo le cose negative del decennio 1968-1977. Invece di parlare delle bombe, dei mitra ai posti di blocco e delle P38, preferivo portare il discorso su tutte le conquiste politiche, culturali e sociali che solo quella stagione aveva reso possibili. Parlare dalla liberazione sessuale, dello statuto dei lavoratori, della chiusura dei manicomi, ecc.

Assalto al cielo

Tali ricordi si sono dati appuntamento improvvisamente di fronte allo schermo su cui ho visto scorrere le immagini di Assalto al cielo (2016) di Francesco Munzi. È stato un po’ come se fosse arrivato finalmente Godot (per citare un momento del film). Utilizzando materiali di archivio talvolta inediti (come la pregevole intervista ai genitori di Walter Alasia[1]) Munzi ha costruito un film documentario che ha l’indubbio merito di mostrarci non solo come quella stagione singolare sia stata, nel bene e nel male, molto più generosa degli aridi anni che le sono succeduti, ma anche che tale generosità fu possibile solo perché nel mondo era in atto un inesorabile sgretolamento (per collegarci al tema del I Ching) dello status quo.

Attraverso tre diversi movimenti d’una specie di partitura per immagini, interrotti talvolta da un provocatorio cartello in stile situazionista che invita gli spettatori a spegnere il proiettore e iniziare un dibattito, Assalto al cielo ci mostra che a sgretolarsi (globalmente) furono, innanzitutto, l’accettazione dell’indiscutibilità degli accordi di Yalta e l’idea della superiorità morale dello schieramento occidentale nella guerra fredda (la critica beatnik al Vietnam). L’idea che l’esclusiva della comunicazione politica rimanesse in mano ai media tradizionali e alle logiche di partito (invenzione della controinformazione e degli happening). Si sgretolarono il sogno della Fabbrica del Nord (una specie di Bengodi) per tutti quei migranti rurali che ne erano stati sedotti (e anche qui come già in Vogliamo tutto di Ballestrini si torna a dar voce ai diretti protagonisti); si sgretolò la granitica fede d’una parte politica (MSI e destra DC) convinta che l’insubordinazione e la rivoluzione fossero appannaggio di certa sinistra e non di tutta una gioventù (scontri di Valle Giulia e occupazione di Giurisprudenza da parte del FUAN) sorpresa che tale gioventù potesse anche, sebbene temporaneamente, superare le divisioni ideologiche e mostrarsi, se non solidale, almeno collaborativa di fronte al “nemico” comune (i poliziotti di cui prenderà le difese Pasolini). Si sgretolò infine l’idea che a guidare le lotte del lavoro dovessero essere i sindacati e che mai potessero farlo direttamente gli operai (magari con l’appoggio degli studenti). Soprattutto si sgretolò l’illusione che il fascismo fosse stato completamente sconfitto e marginalizzato dalla Repubblica Democratica Fondata sul Lavoro. Assieme ai calcinacci di questa convinzione venne giù definitavamente anche la speranza che si potesse mettere in discussione determinati rapporti di forza (le bombe di piazza Fontana e piazza della Loggia avevano parlato chiaro). Con l’irruzione della violenza sulla scena fu anche sgretolata definitivamente la convinzione, di molte persone per bene, che l’odio politico fosse stato accantonato con l’amnistia di Togliatti, alla fine della pseudo-guerra pseudo-civile e che le Brigate Rosse non fossero che un’esagerazione dei media (vedi intervista alla famiglia Alasia).

In ultimo Munzi ci mostra che a sgretolarsi fu quello stesso movimento giovanile che aveva osato tentare di erodere il cielo. Sia attraverso le divisioni settarie (Autonomia Operaia contro Lotta Continua) sia nel conformismo delle parole d’ordine e dell’abuso di droghe, sia nell’equivoco che la voglia di protagonismo e di partecipazione, più che strumenti utili per riconfigurare tutti insieme il cambiamento, fossero già il cambiamento in sé. Munzi mostra come la cosa importante fosse diventata il mettersi in mostra per come si era (tutti nudi) e non per come si aspirava a essere (festival di Re Nudo al parco Lambro). Insomma Munzi non si mostra interessato a incensare o a un’operazione nostalgia, tesa a mitizzare il decennio; al contrario non si risparmia qualche critica. A confermare il senso di questa narrazione non ci sono solo le scelte di montaggio di Munzi, ma anche la grana dell’immagine che, dall’iniziale brillantissima pellicola a colori, delle riprese delle prime manifestazioni italiane contro il Vietnam, degrada progressivamente verso la qualità televisiva in Bianco e Nero delle prime videocamere VHS, quelle con cui Alberto Grifi documentò il festival del parco Lambro.

Alla fine Assalto al cielo (il titolo si rifà a una espressione di Marx riferita alla Comune di Parigi, e ai cinefili ricorderà il capitolo finale di Zero in condotta di Vigo, quando i bambini salgono sui tetti con una bandiera pirata per fare la rivoluzione), nonostante sia costruito con immagini di quaranta e cinquanta anni fa, risulta un film molto attuale.

Rivedere le immagini di piazza Fontana, udire un giovane affermare che il fascismo è connaturato allo Stato italiano e quindi non può essere abolito, ad esempio, per quanto possa lasciarci increduli o in disaccordo, ci aiuta a comprendere come è stato possibile che meno di vent’anni fa accadessero i fatti della Scuola Diaz e della caserma Bolzaneto ma, soprattutto, ci aiuta a spiegare in cosa i cosidetti giovani di oggi siano tanto diversi dai giovani degli anni Settanta: forse non sono la rabbia o la voglia di cambiare ciò che manca. Forse si è sgretolato un po’ tutto e non c’è più nulla da assaltare. Forse ai giovani non resta che armarsi di pennello e colla, rimettere insieme i pezzi e colorare e ridipingere un cielo sgretolato.

Note

[1] Al giovane Walter Alasia, morto a Sesto San Giovanni in uno scontro a fuoco con la polizia che era venuta per arrestarlo per la sua appartenenza alle Brigate Rosse, l’omonimo gruppo terrorista dedicherà una colonna, cioè una cellula terrorista, che sarà poi tragicamente attiva nel milanese.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.

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