Una casa si sgretola a poco a poco, sotto i colpi della lotta fra yin e yang! Questa l’immagine dell’esagramma 23 dell’I Ching, quasi una scena di Delirio a due… ricordo che in un attimo Ionesco sottopone un’agonia coniugale alle esplosioni della guerra circostante, mentre fa a pezzi la casa dei protagonisti. Alt! Troppa sfiga da queste parti!
Come non sazi, il segno è legato ai mesi luglio-settembre, ed è allora che uscirà il nuovo numero della Tigre. Ahi ahi, non vorremo certo affondare nella sabbia mentre leggiamo sul lettino la nostra rivista preferita, allo sciogliersi del sole e della nostra pazienza.
Facciamo così. Anziché al mare, andiamo in montagna, su invito dell’elemento naturale contenuto nell’esagramma 23 ed evocato dal parquet della Corte dei Miracoli che, prima di sgretolarsi, si imbarca proprio di fronte al nostro mandala tibetano, rappresentando già uno stupa in miniatura. Dopodiché, ricominciamo da zero. Sgretolarsi è ricreare. Così almeno succede in molte cosmo(a)gonie alternative alla tradizione giudaico-cristiana. Il gigante Purus.a di tradizione vedica, ad esempio, viene sacrificato così che dalle sue membra sorgano gli esseri e nasca il cosmo intero. Anche il gigante Ymir transustanzia parecchio sulle pagine dell’Edda, tanto che dal suo sangue sgorga il mare e di carne la terra tutta. Nella cultura natale dell’I Ching è poi fotocopia mitologica un certo Ban-gu (stavolta nano), il quale replica mari e terra da sangue e carne, aggiunge altre montagne staccandosi la testa, sbuffa vento e stravince spiccandosi persino i pidocchi per creare… l’uomo!
L’atto divisorio e calcolato del Logos, figlio della Genesi e oppositore di kósmos a cháos, non assomiglia troppo a questo genere di squartamenti. Condanna anzi lo sparagmòs delle menadi come puro irrazionale, figlio di un dio sospetto, Dioniso, lui straniero venuto dalle terre d’Oriente. Nel cammino a ritroso anche noi in cerca di un paese quanto più a Est, ringraziamo di nuovo il Giappone dopo avergli portato omaggio a maggio con “La Tigre e il Giappone”, un festival intero nel nostro teatro. Seduti in cerchio, qualcuno narri la fiaba nipponica del tasso
rovina campi, catturato dal contadino e affidato a sua moglie per cucinarlo, la quale però si fa persuadere
dall’astuta bestia a liberarlo e viene fatta a pezzi, la poveretta: alla fine il tasso malvagio ci infila lei nella zuppa. Ma un coniglio compassionevole, per vendicare il contadino, invita il tasso su una barca di terracotta che presto si sgretola a contatto con l’acqua facendolo affogare.
Che sapore poco aulico da tutto ciò, peggio della zuppa del contadino. Ma in fondo, nemmeno il sacro Kojiki – la già citata cosmologia giapponese – indulge a chissà quali fasti ieratici. Il sommo Izanagi dà vita al dio Amaterasu sciacquandosi l’occhietto sinistro, poi strofina il destro e sputa fuori il grande Tsukiyomi, e completa infine toletta
soffiandosi il naso, per secernere il demone Susanowo. Un’altra liquida frammentazione era stata all’alba della creazione, che dalla lancia di Izanagi caddero gocce d’acqua salata, si tuffarono in mare e crearono l’arcipelago
del Giappone. Avesse avuto fra le mani gli zebedei di Crono, chissà quale Afrodite avrebbe evocato!
Colto il segno del bello e dell’eros in un esagramma che, nell’ordine dei simboli, subentra guarda caso a quello dell’Avvenenza (esagramma 22), vediamo lo sgretolamento attuare una separazione anche fra due metà e venir tradotto talvolta come “lo spaccarsi in due”. Quanto riassunto in sintesi dal mito dell’androgino accade in fondo anche nella frantumazione del corpo di Osiride, cioè l’eterna separazione dalla propria sposa, né meno né più che alla
morte di Satī, di cui Śiva addolorato porta il corpo dilaniato in 51 pezzi che cadono e si sparpagliano a terra, ubicando
negli Śakti Pitha i luoghi sacri sul suolo indostano. Se a questi “spunti” mitologici (per non dire alibi) risalgono orride tradizioni quali quella del sati, che obbliga la vedova a immolarsi sulla pira funeraria e di cui solo Cicerone poteva davvero pensare ch’ella «vien posta lieta sul rogo insieme al marito», abbiamo noi il compito opposto di trarne una felice lezione. Anziché riunione coatta fra vivi e morti, fra uomo e donna, direi piuttosto una distanza di sé dentro di sé e da sé, verso un’osservazione interiore densa di riflessione e bellezza. L’esagramma di sviluppo fa già la òla per noi, trattandosi di quello intitolato: La contemplazione. Per contemplare, insomma, ci si separa in due. Irresistibile ormai la famosa metafora della Muṇḍaka Upaniṣad secondo cui l’anima (ātman) assomiglia a «due begli uccelli, l’un l’altro compagno, che abitano assieme sul medesimo albero. L’uno si ciba del dolce frutto del pippala, l’altro, senza mangiare, con lo sguardo tutto abbraccia». Schizofrenico spirito, si frantuma per guardarsi ed essere visto da se stesso, come persona dentro persona. E già il Puruṣa (“persona” appunto) si era limitato a smembrare solo un quarto del proprio corpo, conservando il resto integro nel regno divino, secondo la dinamica del panenteismo che vuole l’Uno frammentarsi nell’essere e, insieme, rimanere intonso come principio trascendente.
Grandi conquiste ci aspettano allora se sapremo ottimizzare lo sgretolamento. Andiamo a lezione di religione dagli shintoisti, che distruggono e ricostruiscono ciclicamente i jinja, i loro santuari, per ricostruirli paro paro ogni volta. Assumiamo come mâitre à penser i neo-taoisti, capaci di profondersi nella speculazione pur nell’epoca della disunione, dopo che l’Impero cinese fu smembrato nei Tre Regni (San Kuo) cui seguirono, tanto per non farsi mancare nulla, devastazioni di Unni, Mongoli e Turchi Tabghač. Bussiamo infine alla porta di un monaco buddhista e preghiamolo di insegnarci l’estetica del wabi-sabi (侘寂) – da non confondere con la cremina piccantina – per riuscire a entrare nel clima di bellezza di tutto ciò che è caduco, fragile e transitorio. È l’atto di contemplare la rovina,
accettarla e trasferirne il senso nell’arte e nella filosofia di vita. Gli occidentali non si sono accontentati e hanno
voluto finalizzare il più possibile. I progetti “wiki”, ad esempio, ne ha fatto un richiamo quando dové gestire il
metodo di imperfezione dei software collaborativi. Lontano dalla frenesia della “programmazione agile” e del wiki wiki (termine hawaiano che sta per “rapido” e cui Wikipedia deve il suo etimo), l’estetica wabi-sabi entra solo a
poco a poco nella dimensione di caducità e lento sgretolarsi. Ed è soltanto alla fine del nostro esagramma,
per concludere, cioè sulla sesta linea, che si profila l’immagine del tetto di una casa che sta per crollare, in quell’attimo in bilico fra frantumazione e contemplazione capace di rendersi eterno. L’I Ching, quasi consapevole della metafora del frutto del pippala (che ancora aspetto con ansia di scovare su una bancarella in Papiniano il sabato pomeriggio) descrive questo culmine mettendolo in versi:
Ecco un grosso frutto non ancora mangiato.
Il nobile riceve una carrozza.
All’ignobile si sgretola la casa.
Quando Alessandro Magno rase al suolo Tebe, ci fu una sola casa che per suo volere rimase in piedi: la dimora di Pindaro. L’uomo nobile non va in rovina, pur in mezzo alla catastrofe circostante.
di Federico Filippo Fagotto
Per le calligrafie ringraziamo il Maestro Bruno Riva dell’associazione Shodo.it