Come resistere allo sgretolamento nella Nausea di Sartre
La nausea è l’effetto di una perdita di controllo sull’esistenza immediata della natura, ma non è una condizione senza uscita. Oltre l’impossibilità di autodistruggersi, per aver ragione dei tagli del continuum ci si affida alla potenza dell’immaginazione.
L’esperienza, a ben guardare, ha una ricchezza insopportabile.
Ogni frammento di percezione ammette un’analisi quasi infinitamente complessa: non ci sono abbastanza parole per esaurire le sfumature di verde di un prato in primavera, non c’è abbastanza tempo in una vita umana per descrivere in tutti i dettagli una natura morta. Il nostro stare tra le cose è, molto più che una registrazione attenta di ciò che esperiamo, una dimenticanza selettiva e sistematica, il frutto di un’attitudine o di un addestramento a trascurare quasi tutto.
La ricchezza dell’esperienza è insopportabile a ben guardare, cioè a scrutare con sguardo micrologico il dettaglio minuto nel quale lo schema (la salienza di un tratto, di contro alla regressione di un altro sullo sfondo) è digerito in una molteplicità brulicante e in ultima analisi informe. Ma la ricchezza dell’esperienza non è insopportabile. Del guardare normale una dose di oblio fa parte non come aspetto accessorio e deplorevole, ma come carattere costitutivo. Il guardare sano è il vedere sempre già unità, il percepire oggetti che possono, sì, essere scomposti in una pluralità di aspetti (colori, linee, volumi), ma che non si perdono nel rumore bianco dei particolari disarticolati, nelle fluttuazioni effimere di un caos di minuzie.
La condizione del trovarsi sopraffatti da un eccesso di frammenti dei quali non si riesce a vedere o a dire che sono frammenti di qualcosa è una condizione patologica. La situazione dell’uomo per cui tutto è percepito come di troppo è una situazione di crisi, e come tale la presenta ne La nausea Jean-Paul Sartre.
Che il suo protagonista, Roquentin, abbia la “nausea” significa che l’esistenza delle cose, la schietta cieca bruta esistenza dei particolari, senza ordine proprio, senza collocazione sistematica in alcun tipo di progetto, è intollerabile. Tutto, se vissuto così, è in esubero, e la vertigine del troppo preme alla bocca dello stomaco: essa esprime un’angoscia per il caos prepotente del molteplice concreto a fronte di una perdita di autorità e di concretezza delle unità (di quelli che Husserl, che di Sartre era l’ispiratore filosofico, avrebbe chiamato «sensi d’essere»). La nausea è insomma uno sgretolamento del mondo della nostra vita, una riduzione in brandelli dell’esperienza.
La letteratura del Novecento, in dialogo con la filosofia che le è contemporanea, concepisce questo sgretolamento come il frutto di uno sconvolgimento soggettivo: non c’è bisogno di immaginare una catastrofe naturale o soprannaturale per allestire uno scenario apocalittico, cioè non c’è bisogno di prendere a martellate la realtà per farla andare in pezzi. È sufficiente che noi, come accade in nostra vece a Roquentin, per un eccesso di sensibilità perdiamo la presa sul buonsenso di riconoscere dove le cose cominciano e dove finiscono, e vediamo, come se un velo si fosse strappato, la molteplicità ribollente dell’esistente al di là della censura civilizzatrice dell’abitudine: niente infatti se non l’abitudine, nostra o della natura, può far dimenticare che tutto può succedere (perché i dettagli non possono essere dominati). «Se succedesse qualcosa? Se d’improvviso [la natura] si mettesse a palpitare? Allora si accorgerebbero che c’è e avrebbero l’impressione che il loro cuore vada in pezzi. Allora a che gli servirebbero le loro dighe e i loro argini e le loro centrali elettriche e i loro altoforni e i loro magli? Può succedere in qualunque momento, forse adesso: gli auspici ci sono. Per esempio, un padre di famiglia che passeggia vedrà venire verso di lui, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo straccio sarà a un passo da lui, vedrà che è un quarto di carne putrida, sporco di polvere, che si trascina caracollando, saltellando, un pezzo di carne torturata che si rotola tra le pozzanghere spruzzando per spasmi getti di sangue. Oppure una madre guarderà la guancia di suo figlio e gli chiederà: “Cos’è che hai lì, è un foruncolo?” e vedrà la carne gonfiarsi, e in fondo alla piaga si aprirà un terzo occhio, un occhio che ride»[1]. In ogni sensibilità è implicito il rischio di questa annihilatio mundi, perché, a ben guardare, l’esperienza ha una ricchezza intollerabile. Roquentin non fa che andare a fondo.
Fatto quindi il passo che innesca la crisi, siamo ormai oltre la possibilità di ignorare l’esistenza. Ritornare all’ingenuità di coloro che credono di essere giustificati, di non essere contingenti ma di esistere per diritto, è impossibile: tra diritto ed esistenza vi è un’autentica contraddizione, poiché il primo si propone come una necessità consequenziale, come il corollario di un principio d’ordine, che la seconda invece nega per il fatto di asserire instancabilmente la gratuità di tutto, e dunque anche di noi stessi, che non rispondiamo a nessuna esigenza e siamo senz’altro di troppo.
E tuttavia la crisi deve risolversi, deve decidersi in un modo o nell’altro: recuperare l’innocenza perduta è impossibile, perché la negazione di una negazione non è mai uguale alla semplice affermazione; ma è preclusa anche la via dell’autodistruzione, perché per l’uomo nauseato anche l’uccisione di se stesso è di troppo, è un sacrificio sull’altare dell’entropia che la alimenta, non la sazia, e il pensiero del proprio sangue che sgocciola al suolo è troppo stomachevole per poter essere intrattenuto a lungo. Si tratta allora di trovare un modo per dominare il caos senza cancellarlo, di renderlo tollerabile senza far finta che non vi sia. Si tratta di prendere l’omogeneità del contingente e di darle quella scansione che le manca, ossia di costruire una narrazione (o una pluralità di narrazioni).
Prendere un continuum e operarvi dei tagli significa dare a qualcosa un inizio e una fine, un ordine nel quale tutto quello che vi è si trova esattamente dove deve trovarsi, dopo qualcosa e prima di qualcos’altro. Il presagio di questa risoluzione è, attraverso tutto il libro, una canzone jazz, Some of These Days, nella quale ogni nota si origina dalla precedente con lo scopo univoco e sacro di preparare la successiva, e si spegne nel momento in cui ha esaurito il suo compito. Della voce femminile che canta quel brano Roquentin dice: «Se amo questa bella voce, è soprattutto per questo: non è né per la sua ampiezza né per la sua tristezza, ma perché è l’evento che tante note hanno predisposto, da così lontano, morendo affinché nascesse»[2].
Ciò che restituisce al mondo la sua coerenza è l’immaginazione. Contrapposta alla mancanza di immaginazione degli uomini che si sentono giustificati, la cui noncuranza per l’esistente è la cecità di fronte al molteplice e la cui tranquillità nella certezza del proprio diritto è l’illusione del controllo sulla natura, essa assume la forma di una presa di coscienza; ma, contrapposta anche alla mancanza di immaginazione dell’uomo con la nausea, per il quale l’esistente (l’attuale, l’effettivo) soffoca il possibile, cioè il particolare il generale, essa è un leggero, salutare ottundimento della coscienza, che in realtà la riporta da uno stato di ipereccitazione a una condizione di equilibrio.
Nel suo senso minimale l’immaginazione è la capacità di costruire una narrazione, di vedere un contenuto in una cornice che gli dà prospettiva e senso. E come tale l’immaginazione non è un aspetto accessorio e deplorevole del pensiero, ma la sua essenza.
Note
[1] J.-P. Sartre, La nausée (1938), Gallimard, Parigi 2015, p. 224 (tr. it. mia).
[2] Ivi, p. 41 (tr. it. mia).