L’esplosione della scena in frammenti di caos organizzato
Dall’abbandono del teatro di Siracusa ai rifacimenti del Teatro alla Scala, dalla tensione del Nô e della Commedia dell’Arte al caos organizzato di Tennessee Williams: il teatro disfa e ricostruisce, disarma la scena e riallestisce, come nella storia del Globe Theater.
Le linee del segno Po, esagramma 23 dell’I Ching, presentano l’immagine di una casa: per convincersene basta tornare alla copertina della rivista che state tenendo fra le mani e osservare con un pizzico di fantasia le sei linee che compongono il simbolo a cui ci ispiriamo per questo numero.
La linea superiore è evidentemente un tetto, e sembra sul punto di crollare sotto il suo peso, come gli altri cinque tratti già spezzati inferiori. Un simbolo per nulla statico: sta per succedere qualcosa di forte, definitivo. Dalle nostre leggi fisiche ci si aspetterebbe un moto verso il basso: la caduta dell’unica linea ancora integra per raggiungere l’equilibrio a energia potenziale zero. L’interpretazione dell’oracolo segue invece una direzione opposta e attende che la forza yin delle linee spezzate spinga verso l’alto per soppiantare l’unica linea continua yang. Si tratta di due modi diversi per interpretare lo stesso significante, e sono entrambe immagini molto teatrali. La prima è assimilabile agli ampi e frenetici movimenti dei drammi moderni, che in autori come Tennessee Williams “esplodono” in frammenti di caos organizzato. La seconda, più melodica, ricorda i passi di teatro canonizzato dalle grandi tradizioni del Nô e della Commedia dell’Arte, in cui la tensione della scena rimane più costante. Il punto di partenza e il risultato finale sono però i medesimi: Po è una costruzione imponente e la sua architettura è sul punto di modificarsi improvvisamente.
L’esagramma 23 sembra, quindi, la rappresentazione schematica di un dramma. Durante ogni rappresentazione teatrale lo spazio scenico effettivamente si trasforma, seguendo le dinamiche interne al dramma: i movimenti composti degli elementi architettonici (la scenografia), gli spostamenti coreografati degli interpreti o degli oggetti di scena, le azioni, le espressioni fisiche, le espressioni vocali (il testo), l’illuminotecnica e la musica. Ma cosa accade dopo la messa in scena? Quando lo spettacolo è finito, il pubblico abbandona la sala, gli artisti si tolgono gli abiti di scena e si lavano via il trucco, cosa rimane del dramma?
Rimangono molte cose, in realtà, benché tutte intangibili: l’impressione che la rappresentazione lascia nell’animo e nella memoria degli spettatori, un giudizio critico o un dibattito destinato a crescere, fino a cristallizzarsi talvolta in un’interpretazione condivisa. Questo era alla base della vita sociale che si sviluppava un tempo attorno al teatro e che non si interrompeva neanche durante le stesse rappresentazioni. Ricordiamo il buffo aneddoto del paesino nella bassa reggiana dove si stima che tutta la popolazione over 60 sia frutto delle lunghe serate d’opera trascorse da giovani coppiette nei riparati palchi del vecchio teatro locale.
Una cornice di teatro sociale compare anche in tempi moderni, nella cartoon series intitolata BoJack Horsemann. Il protagonista è un attore reso famoso da una sitcom commerciale degli anni Novanta il quale, dopo aver ottenuto la parte principale nel film della sua vita, si reca a New York per una maratona di interviste. L’ambientazione è significativa: la Grande Mela è un luogo di grande fermento teatrale, grazie alle sue sale off e ai teatrini dedicati alle pièces di marionette e burattini, animati da alcuni dei migliori artisti al mondo, di cui è disseminato Central Park. Tanta dedizione all’arte teatrale spiega forse in parte la fama di manipolatori di cui i newyorkesi godono nell’immaginario americano. Da vera newyorkese la marionettista Jill Pill, disegnata come una vedova nera antropomorfizzata, commentando la sua theatrical immersion dichiara:
Il teatro è per sua stessa natura effimero. Gridiamo nel vuoto: «Ehi tu!». E il vuoto dice: «Piantala di urlarmi contro!». E noi afferriamo il vuoto e gli sputiamo in faccia: «Signore non smetterò».
Eppure, l’effimero del teatro si appoggia su un ben costruito impianto materico. La sala in cui si svolge la rappresentazione ne è un esempio lampante: si tratta di un luogo attrezzato in modo altamente specifico che si è modificato nel tempo per venire incontro alle più svariate modalità di rappresentazione. La più antica tipologia di strutture progettate appositamente per l’arte teatrale è probabilmente il θεάτρον greco, un luogo aperto, costruito a margine dell’abitato su un pendio digradante artificialmente modificato per migliorarne l’acustica. Già in epoca romana questa struttura si modifica in modo sostanziale grazie a nuove tecniche costruttive che ne permettono la realizzazione in piano e che vi aggiungono un velarium, copertura rimovibile paragonabile a quella degli anfiteatri d’età imperiale. Lo scrittore e storico dell’arte francese Vivant Denon, in visita in Sicilia, nel 1788 scrisse del teatro greco di Siracusa: «Malgrado lo stato di abbandono, resta tuttora uno dei più bei posti del mondo ed offre lo spettacolo più grandioso è più pittoresco che ci sia».
Esiste poi un grande esempio di rievocazione storica-teatrale dell’epoca contemporanea: il celebre teatro rinascimentale ricostruito nella Londra di oggi, il Globe Theatre, originariamente costruito nel 1599 a sud del Tamigi, nel quartiere di Southwark. Era allora un periodo particolarmente fertile per il teatro londinese, tanto che le playhouse spuntavano come funghi e le compagnie che lavoravano in città erano addirittura centinaia; per due anni a partire dal 1593 i teatri cittadini erano rimasti chiusi a causa di un’epidemia di peste che costrinse molti artisti, e tra gli altri il giovane Shakespeare, a lasciare Londra per le campagne. Quando i proclami di quarantena rientrarono il Bardo fu pronto a tornare in città, dove si unì come drammaturgo alla compagnia dei Lord Chamberlain’s Men. Agli esordi le opere di Shakespeare furono rappresentate al The Theatre, sulla riva nord del Tamigi, ma ben presto alcuni problemi con la proprietà costrinsero la compagnia a spostarsi al vicino Curtain. Una notte di dicembre una quindicina di uomini, attori e manovali appartenenti ai Lord Chamberlain’s Men, smantellarono la struttura del Curtain e rubarono i materiali da costruzione con cui fu poi edificato il Globe; un teatro fenice dunque, in grado di risorgere dalle sue ceneri. Infatti, una decina di anni dopo, fu distrutto proprio da un incendio, originato dall’illuminazione a torce che incendiò incidentalmente il tetto di paglia. Il punto di origine del fuoco che distrusse la playhouse che più di ogni altra fu veramente casa natale del teatro moderno non è certo casuale, soprattutto se questo evento viene messo in relazione all’esagramma Po che appunto rappresenta un’abitazione che si disgrega a partire dal tetto. Il Globe fu ricostruito altre due volte pressappoco nello stesso luogo, dove oggi è visitabile la ricostruzione moderna Shakespeare’s Globe, inaugurata nel 1997.
Abbandonando l’Inghilterra per tornare in Italia, anche il Teatro alla Scala ha subito tra il 2002 ed il 2004 i più importanti lavori di ammodernamento dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando per colpa dei bombardamenti alleati era stata anch’essa ridotta a un mucchio di macerie.
Ma non sono solo le impalcature su cui lavorano gli operai edili a consentire ai teatri di essere luogo di spettacolo. Vi sono altri spazi dove si sviluppa l’impalcatura che regge ogni messa in scena di una certa imponenza: i laboratori di scenografia, a Milano degnamente rappresentati dall’Ansaldo. In questi ventimila metri quadri si realizzano gli allestimenti scenici che troveranno poi spazio alla Scala, o ancora si restaurano le scenografie del passato per nuove messinscene. Per realizzare il necessario a un’arte antica come il teatro, dove il nuovo sembra finto e un volume piatto non funziona, dove solo superfici grezze sanno vibrare e far vibrare l’occhio dello spettatore, occorre una sapienza manuale d’altri tempi; è esattamente questa la sensazione che si ha osservando gli artigiani della Scala lavorare a gigantesche campiture di colore, a imponenti strutture di ferro e legno o a delicate ma gigantesche sculture di polistirolo. I suoni che si ascoltano visitando l’Ansaldo, oltre al frusciare dei pennelli e il ruotare delle seghe circolari e il martellare degli attrezzi, sono parole sperimentate che fanno parte di un dialetto specifico, affinato da una tradizione scenografica risalente agli anni Venti.
Sporgendomi dal parapetto che era il mio osservatorio, ho gridato a nessuno in particolare: «Ehi tu!» Un macchinista mi ha guardato come a dire: «Cosa mi urli contro?», e io ho risposto con lo sguardo: «Bravo. Non smettere di creare la materia di cui è fatto il Teatro».