Il valico inaccessibile

Teoremi di incompletezza che distruggono la montagna delle precedenti teorie

Se la Matematica vi è sempre sembrata misteriosa, forse non è colpa vostra. Essa nasconde i suoi misteri non solo a voi, ma a tutti coloro che vogliono scoprirne i segreti più profondi. L’equilibrio tra efficacia e armonia è più precario di quanto possa sembrare.

La Matematica può apparire come una solida montagna: essa si erge indisturbata sugli assiomi che ne stanno alla base ed è nostro compito scalarla per scoprirne tutte le verità, le quali potranno prima o poi essere visitate da una mente sufficientemente allenata. Ma la verità è meno serena di quanto possa apparire. Vi sono infatti alcuni siti su questa montagna che non sono raggiungibili, e anche cercando di aiutarsi costruendo ponteggi o imbragature, ci saranno sempre luoghi inaccessibili, dove il terreno si sgretola sotto i nostri piedi e non ci è permesso di proseguire.

È un po’ questo il senso dei piuttosto angoscianti teoremi di incompletezza di Kurt Gödel, pubblicati dal matematico e logico austriaco nel 1931 in Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme (“Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e sistemi correlati”). Più che essere teoremi di Matematica sono teoremi sulla Matematica: dei risultati profondi, di cui posso dare solo un’idea approssimativa (al lettore interessato, suggerisco la lettura dell’ottimo e accessibile Gödel, Escher, Bach, di Douglas Hofstadter, che tratta ampiamente di questo argomento). Essi si inseriscono all’interno di un discorso molto ampio che a cavallo tra Ottocento e Novecento teneva occupati i matematici e i logici, i quali speravano di poter offrire delle rigorose fondamenta logiche ai contenuti delle proposizioni matematiche. Era un argomento così delicato che David Hilbert mise la questione della consistenza dell’aritmetica al secondo posto nella sua lista di Problemi per il nuovo secolo, presentata l’8 agosto 1900 al Congresso internazionale dei matematici di Parigi.

Fractal. Elaborazione grafica di Barbara Lane

Fractal. Elaborazione grafica di Barbara Lane

Quello che turbava i matematici dell’epoca era che, a seguito dello sviluppo della Matematica nel XIX secolo e del conseguente tentativo di costruirne delle rigorose basi assiomatiche, potessero nascere al suo interno dei paradossi. Sono famosi quelli che Bertrand Russell aveva scoperto lavorando con il basilare concetto di insieme, ma non conviene qui dilungarsi troppo. Siamo però forse tutti a conoscenza del paradosso del mentitore: “Questa affermazione è falsa”. Se essa è vera, allora deve essere falsa; ma se essa è falsa, allora starebbe in realtà affermando la verità. Se questo è solo una sorta di gioco di parole, e i paradossi linguistici non sono di fatto un problema in quanto non tutte le frasi che posso enunciare devono necessariamente avere un valore di verità assoluto, ciò non è ammissibile in Matematica. Restringendoci per semplicità alla teoria dei numeri, essendo questo il suolo su cui Gödel costruisce il suo argomento, e considerando un’affermazione sui numeri naturali, essa o è vera (23 è un numero primo) o falsa (23 è pari). Non ci sono vie di mezzo, né è possibile averla in entrambi i modi.

Tra il 1910 e il 1913 Russell e Whitehead pubblicarono in tre volumi l’imponente opera Principia Mathematica, quella citata nel titolo dell’articolo di Gödel: l’obiettivo era esattamente quello di sistematizzare delle basi della matematica partendo da un insieme di assiomi e di regole logiche che evitassero contraddizioni interne. In generale, la speranza dei matematici era quella di poter fabbricare un sistema formale, ovvero un linguaggio (composto da un insieme di simboli, di regole grammaticali e di inferenza) e degli assiomi scritti in questo linguaggio, che potesse descrivere le proprietà dei numeri interi e che fosse completo e coerente. Completo, nel senso che potesse catturare l’aritmetica nella sua completezza, ovvero doveva essere possibile dimostrare ogni proprietà dei numeri interi all’interno del sistema. Coerente (o consistente), nel senso che non dovevano emergere contraddizioni interne. Ebbene, Russell e Whitehead credevano di esserci riusciti: sembrava che il sogno di Hilbert e di molti altri matematici potesse davvero realizzarsi.

Quello che Gödel riuscì tuttavia a dimostrare è che se un sistema formale adatto a descrivere i numeri interi è coerente, allora è incompleto. L’idea geniale di Gödel fu di utilizzare proprio un argomento simile al paradosso del mentitore, mostrando come la matematica può “parlare di se stessa”, ovvero essere autoreferenziale, facendo rientrare dalla finestra i cortocircuiti logici che Russell e Whitehead avevano buttato fuori dalla porta.

L’astuzia di Gödel fu la seguente. Una generica affermazione della teoria dei numeri parla di proprietà dei numeri interi, e un numero intero non è, di per sé, un’affermazione della teoria dei numeri. Ma egli intuì che era possibile rendere un’affermazione della teoria dei numeri qualcosa che parla di un’altra affermazione della teoria dei numeri, se solo i numeri interi potessero in qualche modo simboleggiare tali affermazioni. L’idea di Gödel è quindi quella di codificare in una maniera univoca le affermazioni della teoria dei numeri, associando dei numeri ai simboli del sistema formale che servono da suo alfabeto (esattamente come noi associamo all’esagramma di questa uscita il numero 23). Quindi ogni assioma del sistema formale avrà un numero a lui associato, una qualche affermazione scritta in questo linguaggio avrà un numero che la rappresenta, e Gödel riuscì a mostrare come il fatto che essa possa essere dedotta dagli assiomi all’interno del sistema formale si riflette in una qualche proprietà aritmetica dei numeri che li codificano.

Rettili. Litografia di Escher 1943

Rettili. Litografia di M.C. Escher, 1943

Il genio di Gödel è allora quello di aver usato questo suo codice per fabbricare un’affermazione della teoria dei numeri che parla di se stessa. La versione gödeliana del paradosso di Epimenide è: “Questa affermazione della teoria dei numeri non ha una dimostrazione a partire dagli assiomi di questo sistema formale”. Ebbene, supponiamo che sia falsa. Allora si può dimostrare che è vera all’interno del sistema formale a partire dagli assiomi scelti, e ciò significa che è vera! Questa è una contraddizione (avevamo supposto che fosse falsa e abbiamo dimostrato che è vera), e se imponiamo che il sistema sia coerente questo è inammissibile. Dunque l’affermazione deve essere vera, ma essa ci sta dicendo che non può essere dimostrata all’interno del sistema formale! Ne consegue che quest’ultimo, se è coerente, deve essere incompleto: esistono in aritmetica delle affermazioni indecidibili, cioè vere, ma che non possono essere dimostrate all’interno del sistema[1].

Il colpo di Gödel non infierisce solo sul sistema elaborato in Principia Matematica: come suggerisce il titolo del suo lavoro, all’interno di qualsiasi sistema formale che si pone lo stesso obiettivo di quello di Russell e Whitehead la nozione di “dimostrabilità” rimane più debole di quella di “verità”. Anche aggiungendo una dopo l’altra tutte le affermazioni vere ma indimostrabili alla lista degli assiomi del mio sistema, Gödel può sempre giocare la sua carta. È come cercare di costruire una montagna sempre più massiccia, ma ogni volta che aggiungo un masso se ne aggiunge un altro che si sgretola e non mi permette di spingermi oltre e visitarne la totalità. Se la Matematica vi sembra talvolta inaccessibile, sappiate che non è solo una sensazione: per certi versi lo è davvero.

Note

[1]  Va tenuto bene a mente che una cosa è dimostrare che un’affermazione è vera all’interno del sistema formale (“camminando sulla montagna”), un’altra è rendersi conto che è vera lavorandone fuori (“prendendo un elicottero”). Noi abbiamo dimostrato che è vera lavorando fuori del sistema: ma proprio perché lo è, e per il suo contenuto, essa non può essere dimostrata dentro il sistema.

di Gabriele Pichierri

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