La scissione dell’Io verso la contemplazione del divino
Sgretolamento (Po) e Contemplazione (Kkuann) sono messi l’uno di fronte all’altro come due specchi che generano un vorticoso ricorso all’infinito. Sulla scia del testo dell’I Ching, una lettura del processo di riflessione e di auto-contemplazione all’interno della tradizione giudaica e della qabbalah.
Con l’usuale ambiguità sibillina – che oracolo sarebbe altrimenti? – l’I Ching ci ha consegnato il tema. Po si trasforma in Kkuann, lo Sgretolamento (o lo Spaccarsi in due) muta nella Contemplazione. Una sola linea distingue Po da Kkuann: la quinta, che in Po rappresenta l’ultima di una serie di linee spezzate, in Kkuann si “fortifica” dando vita all’immagine della contemplazione rappresentata dalla torre.
L’atto di spaccarsi in due è, quindi, quasi uguale alla contemplazione, stando al nostro oracolo. E dire che mentre il primo esagramma è uno dei responsi più infausti di tutto l’I Ching, la contemplazione rappresenta uno dei capisaldi dell’antica mentalità cinese. È come se l’oracolo ci stesse dicendo: “Per giungere alla contemplazione, devi prima esserti scisso, spaccato, reso alieno a te stesso: non si dà osservazione nell’identità”.
Quanto sarebbero d’accordo i nostri filosofi occidentali! Che cosa vuol dire infatti “riflettere”, se non che nella riflessione ci deve essere una scissione? Riflettere su qualcosa significa rendersi specchio di quello che si sta riflettendo, farsi quieti e calmi come una distesa d’acqua e lasciare l’esterno libero di specchiarsi in noi, senza interferenze o aggiunte apportate dalla nostra inquieta mente. E riflettere su di sé? È necessario separarsi in se stessi, per farci apparire nello specchio dell’interiorità: fintanto che ci identifichiamo con noi stessi rimarremo sempre invisibili al nostro sguardo interiore.
L’I Ching suggerisce questa lettura senza mezzi termini: la quinta linea di Po recita: «Un banco di pesci. Favore viene dalle dame di corte. Tutto è propizio». Ecco lo specchio d’acqua, ecco che il simbolo privilegiato del Sé (il pesce, se vogliamo dare ascolto all’antico cristianesimo e all’alchimia) si è spaccato in una moltitudine, che pur rimane unita nella collettività del banco. Allo stesso modo le donne, “l’altro” dell’uomo: entrambi i simboli sono propizi perché rappresentano l’auto-estraniazione cui dobbiamo andare incontro per incontrarci nello specchio della nostra interiorità. E infatti la quinta linea della Contemplazione è lapidaria: «Contemplazione della mia vita. Il nobile è senza macchia».
Bisogna dunque sgretolarsi, scindersi fino a diventare una molteplicità per contemplarsi come il nobile. Delle migliaia di responsi possibili questo è di sicuro uno dei più universali, su cui quasi ogni tradizione filosofico-religiosa si potrebbe trovare d’accordo. Non è forse questo uno dei possibili sensi della processione dell’Uno alla molteplicità dell’Intelletto attraverso la Diade in Plotino? Non concorderebbero i sapienti d’India con le loro pratiche di visualizzazione del divino nell’assorbimento meditativo? Persino Hegel ci dà il suo cenno d’assenso: che cos’è, infatti, l’intelletto se non questa potenza disgregatrice che dissipa l’unità dell’universale in una molteplicità di opposizioni binarie al fine di conoscere l’unità concreta del singolare?
Potrei dunque parlare di tutto, persino degli sciamani peruviani del tabacco che evocano lo spirito Mariri tramite l’uso di sostanze volte a disgregare l’unità psichica del soggetto – e non casualmente Mariri ricompensa il coraggioso sciamano concedendogli il dono della visione contemplativa. Ma, invece, voglio parlare del Nulla. O meglio: di come in una particolare tradizione religiosa, la qabbalah, questa idea dello specchio contemplativo della propria interiorità possa giungere a riflettere il puro Nulla dell’essenza di Dio, e ottenere così la contemplazione suprema.
Il ragionamento dei maestri cabalisti, pur nelle sue infinite variazioni, è piuttosto semplice. Quando noi riflettiamo (cioè rendiamo la nostra interiorità specchio dell’esterno, o della nostra duplicazione interiore nell’atto di auto-contemplazione) ci “riempiamo” delle immagini, esteriori o interiori. Contempliamo qualcosa. Ma come è possibile riflettere Dio stesso, che per definizione è ciò che trascende l’immagine, è “l’oltre” di ogni cosa determinata, il “non-qualcosa” per eccellenza? In altre parole: è possibile riflettere il puro ni-ente, l’assenza che travalica ogni determinatezza?
Tradizionalmente, il giudaismo rabbinico ha dato una risposta negativa a questa domanda. Seguendo le complesse teorie della profezia esposte ne La guida dei perplessi, capolavoro di Mosè Maimonide, la dottrina essoterica ha interpretato la profezia, e analogamente ogni forma di avvicinamento e apprensione del divino, come uno “specchio opaco”, cioè come un mezzo imperfetto che, insieme alle immagini (o alle parole) del mondo divino, riflette anche sempre se stessa, la propria imperfetta costituzione. Non si può giungere, dunque, a una chiara apprensione del ni-ente che trascende la riflessione, perché il mezzo stesso si frappone e ci obnubila la visione. Solo Mosè avrebbe avuto la chiarezza della profezia attraverso lo “specchio lucente”, cioè avrebbe avuto un accesso diretto al vuoto divino senza l’interferenza della traccia della mediazione riflessiva.
Esiste però un’altra tradizione interna al giudaismo che descrive la possibilità di conquistare questo accesso diretto, di “lucidare lo specchio opaco” per così dire. È questo il fine delle complicatissime tecniche meditative praticate e insegnate da Avraham Abulafia, il discepolo più esoterico del grande Maimonide. Per Abulafia esiste un modo per purificare l’interiorità e giungere allo “specchio lucido”: è la cosiddetta derekh ha-shemot, la via dei nomi, una forma estrema di pratica meditativa che, attraverso lo straniamento semantico indotto dalle continue permutazioni dei nomi-attributi divini, mira a ottenere uno stato di annichilimento (avaddon) e di unione intellettuale (devequt) con la sorgente nascosta del tutto. Questa pratica è particolarmente rilevante per il tema dello Sgretolamento che si trasforma in Contemplazione; per Abulafia, lo straniamento semantico conduce allo sdoppiamento in se stessi, al distacco dell’immagine interna dal suo supporto e, così, alla manifestazione dello “specchio privo di immagini”.
Traendo le parole dal pensiero lui [il cabalista] si forzerà a distaccarsi dal giogo del suo intelletto naturale, perché se vuole non pensare scopre che è impossibile […]. E se avrà la forza di prevalere e di continuare a estrarre [la parola dal pensiero], allora egli uscirà dalla sua introspezione, e prenderà la forma di uno specchio lucido nella sua facoltà immaginativa purificata, e questa è “la fiamma della spada rotante” (Gen 3:24) il dietro roteante che diventa il davanti. Distinguerà il suo essere più profondo come qualcosa di fuori di sé[1].
Reduplicando lo sdoppiamento – cioè giungendo a distaccare persino il “suo essere più profondo” dal supporto della propria visione interiore – il cabalista si ritrova trasportato in un luogo non-luogo (atar law atar[2]), il punto di indistinzione dove essere e nulla, interiore ed esteriore, coincidono. Spaccando in due lo sgretolamento, riflettendo la riflessione stessa, l’uomo si può liberare dal contenuto interno giungendo a lucidare lo specchio, e così alla pura forma della contemplazione, dove ciò che è contemplato è la struttura stessa della contemplazione. Il vuoto ivi riflesso è il vuoto di uno specchio posto davanti al nulla, ossia dello specchio dell’interiorità posto di fronte allo specchio divino: il nulla della riflessione vuota che avviene tra due specchi senza un oggetto da riflettere, dunque, è tanto il nulla della creatura posta di fronte all’infinito (En Sof) quanto il ni-ente di ciò che trascende il finito di fronte alla particolarità della creazione.
Note
[1] Sha’are Ṣedeq, p. 482, in E. Wolfson, Language Eros Being. Kabbalistic Hermeneutics and Poetic Imagination, Fordham University Press, New York 2005, p. 235.
[2] Sefer HaZohar, 1:161b, in E. Wolfson, Language Eros Being, cit., p. 233.