La strada del ritorno è sempre più corta (Mondadori, 2016) è il primo romanzo di Valentina Farinaccio, critica musicale molisana che scrive su il Venerdì di Repubblica. In queste pagine predomina il Sud sotto la forma di un richiamo a radici insieme personali e universali. Centrale è il ritorno a un luogo che sembra appartenere al passato – non è un caso il titolo. Ed è una strada corta, perché le apparenze alla lunga si disgregano totalmente e si ha una certa ebrezza nel tornare a casa dopo un lungo viaggio, un’ebrezza che fa dimenticare il peso dei passi. Che poi, chiunque quando deve ritornare ha da dirigersi a Sud. Ma questa è un’altra storia.
Questo è il tuo primo romanzo. Nasci come critica musicale e si vede nelle pagine una forte influenza della musica, una presenza continua. Pare quasi tu abbia costruito una colonna sonora da ascoltare per il lettore mentre legge questo romanzo…
Tutto quello che mi è accaduto, nella vita, ha avuto una canzone di sottofondo. La musica è una mia grande passione: infilarla nel romanzo, in abbondanza, è stato naturale. Immaginare, oggi, che un lettore si lasci accompagnare, pagina dopo pagina, dalle canzoni che popolano la vita dei personaggi del mio libro è bellissimo.
Il romanzo è diviso in due parti. La prima racconta i punti di vista della figlia di Giordano, una Vera ancora bambina, di sua moglie, Lia, e di sua madre Santa. La seconda parte si svolge ai giorni nostri, dal punto di vista di Vera, la figlia ormai trentenne, che riscopre l’identità del padre in un dialogo/scontro con la madre. Nelle tue intenzioni, chi è tra queste donne la protagonista, o meglio, il personaggio centrale?
L’idea era quella di non dare un ruolo principale a una donna invece che a un’altra. Volevo che ognuna delle tre voci avesse il suo momento e che, in quel momento, fosse solo suo il centro della scena. Anche perché il vero protagonista di questa storia, forse, è Giordano Lorenzini: il vuoto che lascia è il nervo scoperto che percorre tutta la storia.
Oltre alle tre donne abbiamo un protagonista in absentia, Giordano, continuamente presente nei ricordi, che diventa il filo rosso che unisce Vera e Lia, sua madre. Nonostante sia morto quando Vera era troppo piccola per capire, sua figlia si ritrova soprattutto grazie a lui. Si può dire che siano l’assenza e il passato le modalità tramite cui le due donne si liberano e maturano?
Appunto, mi hai preceduto, su Giordano.
Queste donne, Vera e Lia soprattutto, hanno bisogno di affondare nel dolore, prima di riemergere, di prendere aria, e salvarsi. La strada che fanno, all’andata, dura 25 anni: è fatta di silenzi faticosissimi, di fughe, di goffe strategie di sopravvivenza. Sono delle donne molto strampalate che per non ammettere la sofferenza, finiscono col soffrire di più e più a lungo. Per fortuna, la loro strada del ritorno è più corta: dura circa una settimana e serve a sciogliere tutti i nodi che il passato ha lasciato stretti.
Lo sfondo dell’azione è il Molise, in particolare Campobasso, città pettegola, come viene definita nel libro. Che ruolo ha questa città per te, che ora vivi a Roma?
Campobasso è la città in cui sono nata e cresciuta. La città in cui torno, quando mi serve un po’ d’aria buona. La città da cui sono andata via, molti anni fa, per provare a realizzare il mio sogno complicato di provare a fare della scrittura un mestiere.
Volevo che questa mia storia avesse una cornice calda, colorata, piena di sapori, tic, e modi di dire. Avrei potuto scegliere una qualunque città di provincia (è incredibile quanto somiglino tutte, nei loro pregi e difetti!), e scegliere la mia mi è parso ovvio.
Vera, in sintesi, torna a casa: si reintegra e accetta finalmente il suo passato, nonostante gli sia sempre stato nascosto. Definiresti questo romanzo un percorso a ritroso di accettazione del sé, un Bildungsroman a ritroso?
Di formazione, sicuramente. In fondo Vera è una bambina, all’inizio della storia, e la lasciamo adulta, quando la storia finisce. Diventa grande insieme alle pagine di questo romanzo: sviscera il dolore, trova il coraggio della sincerità (soprattutto quella verso se stessa) e rimette insieme i pezzi. Tutto sommato è quello che facciamo tutti, quando ci accorgiamo che è il momento di crescere, e di fare un passo in avanti rispetto al punto in cui si è.
Da dov’è nata l’idea di questo romanzo? Quanto c’è di personale?
C’è stato un giorno in cui ho sentito che era urgente, per me, raccontare una storia. Mio nonno era un camionista: telefonava a mia madre da una cabina che stava a pochi minuti da casa nostra per dirle di farmi affacciare; dopo poco, me lo vedevo sfilare col tir, sulla tangenziale che passava davanti alla finestra della cucina, suonando quel clacson potentissimo che era tutto per me. Io mi sentivo la bambina più fortunata del mondo: e sarà per questo che la storia che ho scritto comincia proprio dal viaggio che Vera fa in tir col nonno, anche se io, su quel tir, non ci sono mai salita.
L’altro spunto autobiografico ha di certo a che fare col fatto che anche mio padre, come Giordano Lorenzini, è morto quando ero piccola. Ma mentre Vera ha avuto ben cinque anni di vita, preziosissimi, da passare col papà, io no. Mio padre Mario è morto quando avevo poco più di un anno e di lui, purtroppo, non ricordo nulla.
Ci sono dei libri particolari che hanno influenzato lo stile, la scelta del tuo linguaggio?
Sono una lettrice ingorda, ma molto disordinata, lo ammetto. Ho dei punti di riferimento importanti, però, che hanno un nome e un cognome, più che un titolo soltanto. Sono Alberto Moravia, Cesare Pavese ed Elsa Morante. A tutti e tre devo molto.
Anche tu come Vera ami molto il caffè. Data la tua esperienza, come si fa un caffè perfetto con la moka?
La cosa che più amo, del caffè fatto con la moka, è proprio il gesto di prepararlo. Io sono della scuola “montagnella”: bisogna mettere nella macchinetta una quantità tale di caffè capace di formare una piccola, soffice montagna a punta. Poi, quando la moka comincia a fare quel rumore caldo e roboante, quello che segnala forte l’uscita del caffè, bisogna spegnere il fuoco. Il caffè continuerà a uscire, ma non saprà di bruciato.
La cosa fondamentale, comunque, del caffè, è berlo con tutta la calma. A sorsi lenti, e mai di fretta.