L’epoca d’oro del cineromanzo

A tu per tu con l’autore: Valentino Ronchi

L’innocenza del mondo editoriale, confronti a specchio fra identità complesse e gli sconti fra candore e capacità di nuocere. L’intervista a Valentino Ronchi racconta L’epoca d’oro del cineromanzo.

Valentino Ronchi è un poeta particolare: la sua poesia, assai difficile da catalogare, ha la particolarità di iniziare un nuovo filone, una nuova possibilità per la sorella maggiore della prosa. Il suo libro, L’epoca d’oro del cineromanzo (edito da Nottetempo, Milano 2016), è un «libro nuovo», come lo definisce l’autore stesso in questa intervista. Un libro di valore: basti pensare al recente Premio Fogazzaro, vinto nel 2016, anche se i premi difficilmente bastano a definire un poeta. In questo caso ci troviamo sicuramente di fronte a un poeta, senza aggiungere l’aggettivo «giovane», termine abusato e inflazionato. Ho deciso di intervistarlo e di pubblicare il nostro dialogo per il numero dedicato all’Innocenza per due ragioni: da una parte perché questo libro ha subìto due nascite, rinnovandosi nelle vesti di un testo unico, recuperando una sorta di innocenza nel mondo editoriale; dall’altra perché protagoniste della prima parte sono due ragazze (Anna e Mélanie), di cui vediamo la crescita e gli incroci, l’innocenza perduta e mantenuta. In questo libro si costruisce un confronto, uno specchio, in cui l’identità di chi non è capace di nuocere (in-nocente) si scontra e incontra passivamente con chi sa come nuocere, ma con un candore e un’innocenza di fondo che confondono e riadeguano certi canoni a una diversa considerazione sul chi essere e sul cosa deve o vuole rappresentare la poesia oggi.

Il termine “raccolta” non è adeguato per L’epoca d’oro del cineromanzo; tanto meno i termini “poema” e “romanzo in versi”. Ciò mi ha messo in difficoltà, perché non sapevo come categorizzarlo. Per questo ti chiedo: come lo definiresti?

L’epoca d’oro del cineromanzo. Poesie 2005-2015 raccoglie una parte del mio primo libro, Canzoni di bella vita, e il mio secondo libro, Anna e Mélanie. Li riordina, mettendo davanti Anna e Mélanie e poi la parte scelta di Canzoni. Editorialmente è il caso in cui un editore, molto più importante dei precedenti, decide di riproporre qualcosa di già apparso. Maria Pace Ottieri, Andrea Amerio – curatori della collana – ma anche Andrea Cirolla, hanno il merito dell’impresa. Comunque sia, si tratta in un certo senso di un libro nuovo, se non ricordo male quanto studiai per l’esame di ermeneutica…

In tutto il libro c’è una relazione non banale con Parigi, mentre nella seconda parte, Canzoni di bella vita, ricorre in particolare una figura, cioè il filosofo Jankélévitch. Gli intermezzi francesi sembrano richiami a quest’ultimo, o sbaglio? E perché proprio Parigi?

Jankélévitch tornerà anche nel mio prossimo libro, in uscita ancora per Nottetempo nel 2017. Sono legato alla filosofia francese del Novecento ormai indissolubilmente e, di conseguenza e a braccetto, a Parigi. A Jankélévitch, poi, in un modo unico, come a un compagno di vita. Lo sto rileggendo in questi giorni, mi sembra ancora eccezionale, mi fido di ogni riga, di ogni citazione, di ogni passaggio. Ma ormai non so più dire se lo sia realmente, eccezionale. Posso solo esser sicuro che lo è per me, e mi basta.

L’erotismo è pregnante nello sviluppo del testo: il lettore raccoglie molte immagini, soprattutto di amori giovanili. Solo che è un erotismo calibrato, innocente quasi. Visto che il tema di questo numero della rivista è L’innocenza, vorrei chiederti se è stata difficile l’introiezione in un punto di vista femminile (le protagoniste sono due donne, Anna e Mélanie) e se questa innocenza erotica è figlia proprio di questo sforzo identificativo.

Esiste sicuramente un erotismo innocente, se per innocente intendi pre-sessuale o “appena sessuale”. Che poi non è certo meno appassionante di un erotismo completo o estremo (anche il baciarsi per ore di due ragazzi è un amplesso, e l’arrivare a levare un reggiseno in cinquanta pomeriggi una conquista sessuale…). Gli amori giovanili, come dici tu, sono spesso eroticamente fortissimi, struggenti, ma sessualmente limitati se paragonati ad altro. Ma solo in termini di qualità, estensione. Anche sull’amore giovanile tornerò nel prossimo libro, ma soprattutto nel libro che prevedo ci sarà dopo il prossimo.

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Il tracciato che prospetti è teso all’evoluzione di un’innocenza: Anna pare essere disillusa, quasi cedevole al paradosso della società, mentre Mélanie ha uno spirito meno ligio a compromessi. Sono due poli dell’evoluzione di un’innocenza, due visioni del femminile?

Dici bene, accennando ai due caratteri diversi, dell’Anna che asseconda la società – non senza rimpianti o piccole ribellioni – e della Mélanie che le si mette di traverso. Nell’affrontare più o meno, con più o meno riserve, con più o meno innovazione il bagaglio che la società ti rifila, sta buona parte della riuscita di una persona. Femminile o maschile, è problema comune ad ambedue i sessi.

Il titolo raccoglie bene la dinamica immaginifica (“cine”) e narrativa (“romanzo”), però la poesia contemporanea spesso è ancora legata all’idea di lirica: trovi ci sia più bisogno di narrazione in poesia?

Del titolo si è recentemente occupato Felice Accame, dedicandogli due pagine del suo Il titolo e la sua funzione ideologica nell’espressione artistica (Odradek, 2016), nelle quali riesce a spiegare molto bene cosa probabilmente mi è passato per la testa nel momento in cui l’ho inventato. A parte la felicità di leggere in un libro del proprio libro, a parte l’affetto intellettuale che mi lega ad Accame, a parte il fatto che dici bene parlando di immagine e narrativa, sulla poesia contemporanea non ho opinioni in questo senso e nessuna voglia di fare eventuale scuola. Io faccio la mia, di poesia, leggo quella degli altri in alcune occasioni, qualcosa mi piace, altro non mi interessa e non lo porto a termine. Ho sempre scritto così, disinteressandomi del resto e, a quanto vedo, continuerò così fin che mi andrà di esprimermi in quella che intendo la mia forma poetica.

Il tuo linguaggio è piano, bilingue, per nulla barocco o eccessivo. A questo proposito, credi che nell’idea di poesia ci sia un problema anche linguistico?

Vale un po’ quanto detto sopra. Comunque sia, è la retorica che va scansata, nella sua peggiore accezione di falso, scopiazzato, modaiolo, cortigiano. E da questo rischio non ti salva nessuna scelta linguistica o stilistica, ci si mette poco a venir smascherati, sia pure da se stessi.

Nella percezione comune il poetico è qualcosa di arcaico, legato al mondo dell’innocenza e della purezza totale, è qualcosa che studi a scuola se va bene. Tant’è, per fare un esempio, che nei cruciverba quesiti come “lamenti per il poeta” sono i “lai”. Il tuo linguaggio sembra tradire questa idea radicata nell’opinione comune…

Guarda, la poesia è una bella compagna, una ragazza cui piaci e che ti piace. Ti ci trovi per parlare un po’, una mattina, un pomeriggio. E quando ci si incontra, al baretto o passeggiando in periferia, provi a raccontarle quel che ti va di raccontarle con le parole, le pause, le omissioni che al momento ti sembrano le migliori che hai: vuoi impressionarla, colpirla, ma senza perdere la tua sincerità, insomma vuoi piacerle per quel che sei e sei convinto ti possa riuscire. Credo che pensandola così ne sia uscita una scrittura in grado di comunicare e narrare, raggiungere talvolta anche chi, pur leggendo abitualmente e studiando, non legge e non studia poesia.

intervista a cura di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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