Infanzia di un piccolo partigiano nel film di Andrej Tarkovskij
Bambini da pellicola raccontano il mito dell’infanzia, a metà fra narrazione morale e soddisfazione dei desideri visivi dello spettatore. Bambini innocenti e bambini terribili, come il protagonista di cui Tarkovskij mostra il punto di vista da una «quarta persona al singolare».
I ragazzi della via Pàl, Marcellino pane e vino, Germania anno zero, Mouchette – Tutta la vita in una notte, Il villaggio dei dannati, L’infanzia di Ivan, Incompreso, L’esorcista, Carrie – Sguardo di Satana, Damien, Shining, L’innocenza del diavolo, Una tomba per le lucciole, Il giardino delle vergini suicide, Il labirinto del fauno, Hard Candy, Battle Royale e il suo gemello americano Hunger Games, La mia vita da zucchina…
Tutti film che appartengono a generi molto diversi e con due cose in comune. Una è la fanciullezza. La fanciullezza nei film è talvolta abnorme, grandiosa e magica come un libro di avventure, ma più sovente è abbandonata a sé o, come vuole la regola, è uno stadio da abbandonare per far spazio a crisalide e farfalla. Spesso il fanciullo è, sul grande schermo, un essere incompreso e incomprensibile proprio perché mutante. In certi casi incarna l’anomalia selvaggia. Non mancano pertanto fanciulli inquietanti o addirittura alieni, per tacere di quelli talmente distanti da tutto e tutti da inscenare la fanciullezza assoluta, non plus ultra, oltre la quale non si procede.
Di norma al cinema la fanciullezza va rapita, arrestata, rinchiusa, sfruttata, malmenata o tenuta incatenata al letto ad ascoltare la Bibbia. Perché la fanciullezza nei film è ingombrante ed è sempre da guardare, anzi da scrutare, con sospetto. Sembra che al cinema valga un precetto complementare a quello della poetica di Pascoli. Bisogna cercare di liberarsi del fanciullo il prima possibile e con ogni mezzo.
Perché nei film la fanciullezza è così bistrattata? Perché i fanciulli di celluloide affrontano sempre circostanze come guerra e povertà o enormi difficoltà nel passaggio obbligato al mondo degli adulti (sempre che il plot non ne preveda la morte prematura)? Perché ai fanciulli gli sceneggiatori organizzano sempre appuntamenti al buio con la morte? Perché devono essere lasciati cadere giù da una ripida scalinata mentre attorno volano pallottole di gangster o dell’Armata Russa, cioè prima ancora di sviluppare un velo di barba o di saper pronunciare la parola “menarca”? Perché tanto odio?
Un motivo, non dimentichiamocelo, è dovuto alla più bieca necessità di solleticare il sadico voyeur che siede nella nostra poltrona preferita e che, sotto sotto, ama commuoversi delle sofferenze virtuali degli ex marmocchi. Un altro è che il cinema è arte di propaganda, nel quale la manipolazione, a fini educativi, di giovani menti è ghiotta opportunità. Mostrare i fanciulli intenti a fare tutto ciò che non dovrebbero, fino a che non giunga la giusta (anzi la spietata) punizione finale, rassicura i bravi bambini e mette sull’avviso i monelli. Ma queste non sono che motivazioni accessorie.
Il buon motivo per bullizzare il fanciullo al cinema in fondo non è che uno: il pupo s’è fatto furfante (e se non lo è ancora lo sarà). La fanciullezza insomma è pericolosa. Perché dal momento in cui il bambino non è più un infante, cioè incapace di parola, ma è appunto un fantolino o un fante dotato di favella, vorrà esprimersi e non è detto che sia piacevole il momento in cui aprirà bocca. Del resto anche Hannibal Lecter avrà fatto le elementari (chissà cosa diavolo gli davano in mensa!).
Inoltre, la fanciullezza non solo è pericolosa ma anche nociva. La fanciullezza è la mezzanotte dell’innocenza che è, poi, la seconda cosa in comune dei film elencati. Tutti i film in cui i fanciulli muovono la storia non parlano in fondo che d’innocenza. L’innocenza perduta o mai avuta, da riconquistare o perdere, da esaltare o soffocare, da salvare o uccidere. Chi più ne ha più ne metta. Ma cos’è l’innocenza o chi è innocente? Innocente è, letteralmente e etimologicamente, colui che non può nuocere, ossia colui che non può fare male ad alcuno.
L’innocente fanciullo (o il suo doppio perverso) al cinema è usato a fini retorici o anti-retorici, ma sempre e comunque per ferire esteticamente lo spettatore e scuoterlo moralmente o ideologicamente. Altro che innocenza. I bambini sullo schermo sono usati per manipolarci. Per farci ridere o piangere, farci sentire in colpa o indignare. Pertanto ecco che al cinema vediamo una pletora di bambini e ragazzi che possono e devono essere assassini crudeli, ribelli pestiferi e, sebbene talvolta siano santi, son sempre e comunque da martirizzare al più presto, tanto quanto i loro fratelli indemoniati; perché, in definitiva, anche i santi sono pericolosi (figurarsi quelli santi già da bambini). Anche i più banali ruoli di fanciullo sono rischiosi. La legge della vittima sacrificale immolata a un rito crudele è quella d’una daga di Damocle che calerà appena lo pretenda Magone, il dio dei lucciconi.
Ergo, sebbene il cinema non venda merendine, esso usa il bambino più o meno come lo usa la pubblicità: non si tratta di un essere umano, ma di un simbolo adoperato per far leva sulle nostre emozioni profonde. Insomma, quando si vede un fanciullo sul grande schermo si dovrebbe mettere mano alla rivoltella.
Naturalmente esistono eccezioni alla regola. Ci sono film in cui il fanciullo è in scena semplicemente per raccontare una storia in cui è protagonista la fanciullezza o in cui l’innocenza rappresenta solo se stessa. Uno di questi è L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij.
Ambientato sul fronte del Volga durante la seconda guerra mondiale, L’infanzia di Ivan narra di un ragazzino senza famiglia (tutti uccisi dai nazisti) unitosi ai partigiani. Molto abile nel riuscire a passare attraverso la palude che separa l’esercito sovietico da quello nazista, Ivan è usato talvolta dal colonnello dello Stato Maggiore Grjaznov per raccogliere informazioni.
In realtà L’infanzia di Ivan ha tutti gli ingredienti per essere un film manipolatorio. Difficile trattenere le lacrime vedendo un ragazzino solo, protetto e sfruttato dagli adulti, cresciuto prima del tempo a causa della violenza della guerra e dell’odio per i tedeschi (commoventi le scene in cui ottenuto un vero coltello lo usa per giocare alla guerra, proprio lui che la sta facendo) ma ancora bisognoso d’affetto e carezze, come ci raccontano i suoi sogni. Tuttavia a Tarkovskij riesce un doppio miracolo: costruisce un film contro ogni retorica eroico-guerresca e al contempo ci restituisce il punto di vista dell’innocenza di fronte all’orrore. Non a caso il film venne accusato dai comunisti russi e italiani di aver sposato uno stile filo-occidentale da borghesia decadente. Intervennero a difenderlo Sartre e i giurati di Venezia, che lo premiarono.
Nel film c’è un uso sapiente di stratagemmi poetico-visivi, come il sogno e il flashback, girati e montati in modo da creare l’occasione per immagini “anfibie”, tra immaginazione e memoria, del genere che Deleuze in Logica del senso classificava come «quarta persona del singolare». Si tratta di modalità di racconto (spesso usate in poesia) in cui è difficile stabilire chi si stia esprimendo, se il personaggio o il narratore. È la lingua del “si” impersonale; perché quello che si esprime nei passaggi onirici è il punto di vista dell’innocenza di Ivan, perduta e allo stesso tempo sempre presente.
Ivan non è più innocente, anzi vorrebbe nuocere moltissimo (specie ai tedeschi). Tuttavia nei suoi sogni è ancora un piccolo Adamo in procinto di offrire una mela a una giovane Eva e questa innocenza, in qualche modo, contamina l’inferno reale di Ivan. L’innocenza di Ivan nel film è una materia liquida, trasparente, invisibile e penetrante come l’acqua. È disciolta con gli altri elementi della narrazione, tanto che sogno e realtà s’includono come vasi comunicanti (si veda il sogno del pozzo). L’acqua del resto è il simbolo più o forte di tutto il film. Ne è un esempio l’acqua scura e putrida della palude di guerra, messa in contrasto con quella pura del fiume su cui Ivan nel finale corre, chissà se per un giorno o per sempre, con la sua piccola Eva.