Ogni tanto siamo tutti protagonisti di paradossi temporali in cui immaginiamo di poter tornare alla nostra infanzia con la consapevolezza dell’adulto, in modo da poterne godere appieno, senza sprecare la spensieratezza di quegli attimi. Assumendo, per assurdo, che sia possibile godere in maniera razionale di tale spensieratezza, possiamo dire che il desiderio sia quello di tornare bambini, senza però esserlo davvero. L’innocenza e la semplicità del fanciullo sono infatti una medaglia dalla doppia faccia: l’eccessiva assenza di esperienza ostacola il giudizio e ci immerge nel flusso della vita senza salvagente. Tornare bambini senza esserlo davvero, pienamente consapevoli dell’ingenuità figlia dell’assenza di esperienze. Un corto circuito logico che ci trasformerebbe in dei freaks, o bambini strani, per usare un eufemismo, non adatti a stare con gli altri, annoiati e nel breve termine probabilmente inclini alla follia. Dal desiderio della fanciullezza al manicomio il passo è brevissimo.
Bene! Sappiate che probabilmente nella libreria sotto casa potete trovare una copia di Brian the Brain, il capolavoro di Miguel Angel Martin, opera capace di evocare quei sentimenti misti di innocenza e schiacciante consapevolezza. Brian è un bambino mostruoso, nato senza scatola cranica a causa degli esperimenti ai quali, per ragioni economiche, la madre-cavia si sottoponeva anche durante la gravidanza. Brian nasce così con un cervello enorme, esposto e senza alcuna protezione dagli agenti esterni. L’altra faccia della medaglia, appunto, sono però degli sviluppatissimi poteri sensoriali e una spiccata intelligenza e sensibilità. Brian viene preso in giro dagli amici e respinto dalla vita stessa e dalle sue convenzioni, senza però perdere mai la voglia di dialogare con gli altri, di ascoltare, di immedesimarsi e soffrire. Non si crea nessun callo e nessuna resistenza al sentimento, perché alla fine è pur sempre un bambino che vive ancora all’interno di un flusso leggero, figlio della giovane età.
Brian, il mostro, è portavoce e simbolo di una specie destinata a estinguersi, asfissiata dalla stretta di ciò che oramai è diventato normale. Non si tratta della normalità intesa come quotidianità nella sua accezione affettuosa, si parla invece di normalità in un senso alienante, una normalità dove la società stessa diventa laboratorio a cielo aperto per cavie inconsapevoli e vittime del culto della superficialità più degradante. Brian vorrebbe invece vivere la normalità nella sua spensieratezza, perché un bambino che gioca e si diverte senza il peso del giudizio e della riflessione dovrebbe essere la normalità, almeno fino a una certa età. E invece lui è il mostro, e il mostro sta con i mostri, che Martin descrive egregiamente con una serie di personaggi affetti da malattie di ogni tipo. Ma questi altro non sono che la rappresentazione simbolica degli emarginati di oggi: gay, lesbiche, handicappati, malati e via dicendo.
Nella imprecisata società futuristica in cui Brian si trova a vivere si sente il pesante fetore e la degenerazione del presente. Il non-luogo dove tutto è ambientato: ecco simboleggiare le metastasi di oggi. Collocando queste degenerazioni nell’astratto, Martin punta il dito contro tutti con un classico ma efficace processo catartico. Allora la domanda che ci si pone è se la grande intelligenza e sensibilità di Brian derivino dal suo enorme cervello o dal suo vivere a stretto contatto con delle persone che, emarginate come lui, hanno davvero qualcosa da dire e insegnare.