Il giardinaggio e la condizione umana nel Candide di Voltaire
Se non si può più far conto su Dio per garantire l’ordine metafisico e morale, gli uomini devono cavarsela da soli: e forse il lavoro serve loro soprattutto come distrazione.
Quando i protagonisti del Candide di Voltaire, al termine di infinite peripezie, riescono a stabilirsi su un piccolo appezzamento dove sembra che possano finalmente trovare una relativa pace, uno di loro, il filosofo Pangloss, commenta: «Tutti gli eventi formano una catena nel migliore dei mondi possibili. Giacché, dopo tutto, se non foste stato scacciato da un bel castello a calcioni nel sedere per amore della signorina Cunegonda, se non foste stato sottoposto all’Inquisizione, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste dato un gran colpo di spada al barone, se non aveste perduto tutti i montoni del buon paese d’Eldorado, non sareste qui a mangiare cedri canditi e pistacchi». E Candido, nelle battute che chiudono il libro, gli risponde: «Ben detto – ma bisogna coltivare il nostro giardino»[1].
Candido o L’ottimismo è un agile e frizzante romanzo filosofico che, pubblicato nel 1759, può ancora folgorare chiunque lo legga per la prima volta. Il vorticoso susseguirsi di colpi di sfortuna, cataclismi, coincidenze, disgrazie, incontri, scontri, mattanze e meraviglie di cui Candido e i suoi compagni di viaggio sono testimoni, spesso vivendo tutte queste cose in prima persona, è una satira caustica ed esilarante della dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita, secondo la quale tutto accade esattamente nel modo in cui deve accadere affinché questo mondo sia il migliore dei mondi possibili.
Certo, se non dobbiamo pensare che Voltaire sia un lettore ottuso delle opere filosofiche di Leibniz, allora è chiaro che i suoi strali polemici sono diretti non contro Leibniz, ma contro i suoi lettori ottusi, di cui Pangloss è l’alfiere e il generale. Ma in ogni caso nel Candide c’è più che una semplice ridicolizzazione della posizione «metafisico-teologo-cosmoloscemologica»[2] dei più rozzi assertori di un finalismo dogmatico. Il mondo la cui immagine viene schizzata in questo libro bellissimo ha una fisionomia precisa, di cui proprio non si potrebbe dire che serva solo a fare da sfondo a una vicenda picaresca: il mondo di Voltaire, che Candido attraversa in lungo e in largo in balia di una sorte cieca, sopravvivendo per puro caso, e non indenne, alle calamità che di volta in volta osserva, riflette una concezione alternativa dell’ordine naturale e umano. Alternativa a quella di Leibniz, sì, ma alternativa pure, più radicalmente, a tutte le prospettive che in un modo o nell’altro rientrano nello schema assai generale del teismo cristiano: categoria di cui fa parte anche un altro acerrimo nemico di Voltaire, cioè Rousseau.Ma occorre che facciamo un passo indietro, e ricominciamo dal giardino. Molto del senso del testo di Voltaire si comprende, come l’autore stesso suggerisce, leggendolo come una parabola uguale e contraria a quella della cacciata dal paradiso terrestre. Nella Bibbia, Dio consegna ad Adamo il giardino dell’Eden «perché lo coltivi e lo custodisca» (Genesi, II, 15); all’uomo innocente dell’origine viene affidato un bene e impartito un comando, con la garanzia che obbedirvi è sufficiente per assicurarsi perpetua felicità; e quando, in seguito al peccato, Adamo ed Eva vengono espulsi e mandati nel mondo, il lavoro e il travaglio (come se non fossero una cosa sola) diventano la cifra della punizione eterna. Possiamo immaginare che coltivare il giardino dell’Eden fosse un’occupazione decisamente frivola e comunque poco impegnativa; la dura terra che ha bisogno di essere arata per dare frutti è tutt’altro discorso.
Anche la vicenda di Candido inizia con una vera e propria cacciata: il giovane viene scoperto mentre mangia del frutto proibito in compagnia della figlia del barone di Thunder-ten-tronckh, suo zio; egli viene così allontanato a calci dallo squallido maniero tedesco dove ha trascorso l’infanzia nella convinzione, dovuta ai paralogismi di Pangloss, che fosse il migliore dei castelli possibili. Quella che segue è una caleidoscopia di sciagure, ma niente lascia supporre che si tratti del degno castigo che Candido e Cunegonda (che lo ritrova in Portogallo) hanno meritato per la colpa di cui si sono macchiati al principio. Questo è ciò che emerge prepotentemente come caratteristica del mondo tratteggiato da Voltaire: quello che accade agli uomini, di buono o di cattivo, non obbedisce a un progetto di cui essi sono i protagonisti. Un ordine, nell’universo, vi è, poiché l’orologio del cielo e delle stelle ha certo avuto bisogno di un mirabile artigiano per venire in essere; ma per un dio del genere gli uomini non sono che il sottoprodotto, del tutto periferico, di ben altro disegno cosmico, e a mettercene a parte è, nel romanzo, la saggezza di un derviscio turco:
«Maestro, veniamo a pregarvi di dirci perché sia stato formato un animale così strano come l’uomo». «Di che ti impicci? – disse il derviscio – è forse affar tuo?» «Ma, reverendo padre – disse Candido – c’è un’orrenda quantità di male sulla terra». «Che importa – disse il derviscio – che ci sia del male o del bene? Quando Sua Altezza invia una nave in Egitto, si preoccupa forse se i topi della nave stanno o non stanno comodi?» «Che cosa bisogna fare?», disse Pangloss. «Devi stare zitto», disse il derviscio. «M’illudevo – disse Pangloss – di ragionare un po’ con voi degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita». A tali parole il derviscio sbatté loro la porta in faccia.[3]
Non c’è spazio nel deismo filosofico, illuministico e francese di Voltaire per un ordinamento morale intrinseco dell’universo, per un’assiologia assoluta. L’uomo non nasce innocente più di quanto nasca malvagio, e le preoccupazioni di un Rousseau per conciliare la bontà del creatore con la meschinità della creatura meritano di essere semplicemente chiuse a chiave fuori dalla filosofia. Candido è un paradigma di innocenza, non c’è dubbio: «Al retto giudizio univa la semplicità di spirito, e per questo, credo, lo avevano soprannominato Candido»[4]. Come scrive l’I Ching, «quest’è l’indole schietta, naturale, non offuscata da riflessione o da secondi fini». Ma diversamente da quanto vorrebbe l’I Ching tale innocenza, per quanto accompagnata dalla «rettitudine» cui accenna il commento all’esagramma 25, non lo difende da nessuna delle peggiori catastrofi possibili. Gli uomini sono topi a bordo della nave terrestre che solca il mare cosmico, e di ciò che accade loro a Sua Altezza semplicemente non interessa.
Così, quando infine Candido e compagni, con una sorta di cacciata alla rovescia, approdano alla fattoria, non è in seguito a fatti meno contingenti di quelli che hanno inflitto loro tutte le sofferenze da cui sono reduci. Non c’è innocenza o colpevolezza che tenga, e se si vuole condurre un’esistenza accettabile non si può fare molto più che coltivare il proprio giardino. Il lavoro in cui dopo mille tormenti si trova rifugio è l’unica via di mezzo tollerabile tra i due estremi, la cui periodica alternanza scandisce altrimenti la vita umana. Non è più né una benedizione né una maledizione, ma solo un equilibrio migliore di altri, che si può cercare di far durare finché si può.
Una vecchia, compagna di sventure di Candido durante una parte delle sue peregrinazioni, osserva allora: «Vorrei sapere che cosa è peggio: se essere violentata cento volte dai pirati negri, farsi tagliare una natica, passare sotto le verghe dei Bulgari, essere frustato e impiccato in un autodafé, essere sezionato, remare sulle galere, subire tutte le miserie attraverso le quali siamo passati, oppure restare qui senza far nulla?» E il filosofo Martin, tirando le somme, risponde: «L’uomo è nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia. […] Lavoriamo senza ragionare – è il solo modo per rendere la vita sopportabile»[5].
Note
[1] Voltaire, Candido, tr. it. e cura di G. Iotti, Einaudi, Torino 2006, p. 123.
[2] Ivi, p. 4.
[3] Ivi, p. 120.
[4] Ivi, p. 3.
[5] Ivi, pp. 119-122.
di Michele Lavazza