“Sto pensando a te”

L’avviso di garanzia e la presunzione di innocenza

Viviamo in un Iperuranio in cui vengono indagati solo i colpevoli e gli innocenti non sono mai sottoposti a giudizio? Presunzioni d’innocenza e avvisi di garanzia ci dicono che la giustizia a sua volta non è innocente e ha bisogno di formule decisionali.

Iniziamo ad affrontare il tema di questo numero con un vivido spaccato della Prima Repubblica: Sergio Moroni era un socialista bresciano, assessore ai trasporti, che nel 1992 aveva ricevuto due diversi avvisi di conclusioni delle indagini preliminari per fattacci connessi con Mani Pulite.

Prima di ammazzarsi, inviava una lettera aperta a Giorgio Napolitano, che all’epoca presiedeva la Camera dei Deputati; lo scritto si concludeva così: «Mi auguro soprattutto che [il gesto] possa servire a evitare che altri, nelle mie stesse condizioni, abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna».

Fortuna che non c’è più: gli sarebbe molto amaro accorgersi di come ancora oggi capiti che gente con poche idee ma confuse si metta a mescolare con disinvoltura le parole che sente in televisione, non distinguendo avvisi di garanzia, rinvii a giudizio e sentenze di condanna; con queste premesse, sarebbe impensabile che qualcuno si prendesse la briga di separare le condanne non definitive da quelle passate in giudicato.

In dubio pro reo

Non consola, d’altro canto, constatare che vengono confuse spesso e volentieri anche le sentenze di assoluzione con altre pronunce che dicono ben altro. Ricordo un certo giornalista che, parlando di un certo politico, disse che era stato «assolto», quando in realtà la sentenza diceva qualcosa di ben diverso: era scritto a chiare lettere che erano accaduti fatti loschi, ma che il reato, visto il tempo trascorso, era venuto incontro a prescrizione. Da un certo punto di vista era una sentenza di condanna, che non arrivava a infliggere la pena perché erano passati troppi anni.

Il giornalista si è poi giustificato dicendo di avere un po’ semplificato, per spiegare l’accaduto con parole comprensibili ai più. Quindi, se ogni tanto sono i professionisti a mescolare il mazzo, intenzionalmente o meno, immaginiamoci che confusione ci può essere nella mente della proverbiale casalinga di Voghera.

Viene così il dubbio che sia il caso di allontanarsi dalle parole semplici e avvicinarsi a quelle precise; per capire bene il nodo della questione, bisogna partire per forza da un concetto importantissimo che forse potete aver già indovinato, avendo letto il tema di questo numero. D’altro canto, non ho mai dubitato della perspicacia dei miei lettori.

Parlerò della presunzione di innocenza, ma per non farla sembrare una cosa barbosissima partiamo da un esempio. Voi, cari lettori, volete bene alla vostra mamma? E la vostra mamma ve ne vuole?

Augurandoci che entrambe le domande siano evase con risposte positive, e avvedendoci di come ciò accada nella stragrande maggioranza delle volte, ci rendiamo conto che possiamo partire da un solido presupposto: tutti vogliono bene alla propria genitrice, e le genitrici sono solite reciprocare.

Abbiamo così una presunzione. Presumiamo che tutte le madri e i figli vivano di buoni sentimenti scambievoli.

In questo sondaggio generale pieno d’amore, possiamo immaginare che qualcuno alzi la mano e dica: Io non voglio bene a mia mamma! A sentire questo sacrilegio, tutti noialtri avvertiremmo un mancamento, ci guarderemmo l’un l’altro, stupiti, e infine chiederemmo: E perché?

Ci aspettiamo, insomma, che chi non cova buon animo per la propria madre in qualche modo motivi, spieghi questi suoi risentimenti, ci convinca che quella sua devianza dalla normalità risponda a qualche logica.

Bene: il meccanismo è lo stesso anche per quanto riguarda la presunzione di innocenza.

Nei tribunali si parte sempre dal presupposto che siamo tutti innocenti, che nessuno si sia macchiato di qualche crudelissimo crimine. Ed è davvero così anche nella vita di tutti i giorni, in un certo senso: quando chiamiamo l’idraulico, certamente non partiamo dal presupposto che abbia ammazzato qualcuno o rapinato una banca; a pensarci bene, ci aspettiamo pure che voglia bene a sua madre.

C’è un però: un Pubblico Ministero a un certo punto può alzare la mano e dire: Guardate che quello là, il vostro fruttivendolo, in realtà ha commesso un crudelissimo delitto: ha ucciso sua suocera. E noi, popolo incredulo, risponderemmo: Ah sì? E perché dici così? Dimostracelo!

Spetterà a chi accusa provare il contrario di quello che noi, giustamente, presumiamo. Il fruttivendolo in prima battuta non dovrà far nulla per dimostrarci la sua innocenza; solo se chi lo accusa porterà prove a sufficienza («oltre ogni ragionevole dubbio»), potremmo convincerci del contrario e solo a quel punto la presunzione sarà vinta.

In questa metafora strana, l’informazione di garanzia, che tecnicamente si chiama “avviso di conclusione delle indagini preliminari”, equivale all’alzata di mano: vuol dire che da qualche parte c’è un Pubblico Ministero che è convinto di avere delle carte da giocare per provare la colpevolezza di chi ne è destinatario.

Caravaggio, La negazione di Pietro, 1610

Caravaggio, “La negazione di Pietro”, 1610

A ben guardare, è già qualcosa, anche perché i PM spesso non lavorano da soli: quando prendono provvedimenti gravi, come sbattere in galera qualcuno ancora mentre si sta investigando, sono supervisionati dai Giudici per le Indagini Preliminari (i famosi “GIP”), che sono imparziali, guardano le cose da un punto di vista esterno e vegliano sull’operato delle Procure, evitando – si spera – che commettano nefandezze.

Resta però il fatto che l’avviso di garanzia non è certamente equivalente a una sentenza di condanna, ed è presto detto il perché. In un mondo ideale, tra gli unicorni e i serafini, tutti lavorano perfettamente: i Pubblici Ministeri coordinano indagini proprio come negli sceneggiati della RAI, con un fiuto pazzesco, così da accorgersi subito di chi è innocente. Nell’Iperuranio, insomma, i delinquenti vanno in galera e le persone perbene non sono mai nemmeno formalmente indagate, neanche per un istante.

Nel mondo vero, invece, i Pubblici Ministeri possono commettere alcuni errori e convincersi della colpevolezza di persone estranee, magari trovatesi invischiate in una trama criminale complessa; in situazioni grigie può anche capitare che i procuratori possano valorizzare le tinte scure su quelle chiare; non si può nemmeno escludere che un PM possa essere convinto di avere elementi sufficienti a sostenere un’accusa, mentre un giudice può ritenere che tutti gli elementi in mano all’accusa non vincano il proprio ragionevole dubbio.

L’elenco di disavventure ipotizzabili non finisce qui: considerando l’enorme quantità di procedimenti che ogni procuratore è chiamato a gestire, può anche darsi che, incolpevolmente, gli sfugga qualcosa. Ci sono poi – e si spera siano rarissimi – casi in cui si prova a mandare a giudizio qualcuno, magari perché sta antipatico, magari perché l’indagato è famoso e quindi il Procuratore potrà farsi pubblicità. Infine, l’avviso di garanzia può solo essere un mezzo con cui il PM ti dice che sta pensando a te, come gli “squilli” che andavano di moda tra i giovani nei primi anni Duemila.

Tutte queste possibili evenienze, più o meno deplorevoli, sono il motivo per cui alle indagini seguono i processi, in cui un altro giudice ancora, dotato di occhi nuovi e diverso dal GIP, dice al Pubblico Ministero: Davvero ritieni che il fruttivendolo abbia ucciso sua suocera? Provacelo!

Solo con il processo si garantisce una migliore osservazione di ogni elemento in mano all’accusa e alla difesa per arrivare a un giudizio finale che si spera imparziale e giusto, e certamente sarà più imparziale e giusto di un avviso di conclusione indagini.

Insomma: confondere le informazioni di garanzia con le sentenze di condanna – come fanno alcuni interpreti del dibattito politico – significa avere troppa fiducia nell’operato delle Procure e pensare che ciascun Pubblico Ministero sia una divinità infallibile. La storia, purtroppo, ha dimostrato che non è così.

di Gianluca De Rosa

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.

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