Al teatro Franco Parenti, fino al 7 maggio, è in scena Bull di Mike Bartlett, diretto da Fabio Cherstich. È uno spettacolo che richiede una certa dose di rielaborazione, perché oltre ad essere crudo e dolente, tratta di tematiche reali che impongono una riflessione molto attenta. Bull sbatte in faccia con violenza una realtà macerata e lisa in cui mobbing e opportunismo caratterizzano un mondo lavorativo votato alla competizione e alla prevaricazione. Per cui la sensazione che si ha da questo spettacolo è straniante, sin dal palcoscenico, disposto come fosse un ring di boxe, con gli spettatori attorno.
Dovessimo porla come ci si aspetta questo spettacolo, ossia una sorta di incontro di boxe, dovremmo tifare per qualcuno dei combattenti; purtroppo, in questo caso non si può tifare per nessuno dei protagonisti: i tre attori, Thomas (la vittima), Isabel e Tony (i carnefici) sono gestualmente, fisicamente impossibili, nella misura in cui decontestualizzano il simbolo che si è voluto trasmettere con la scenografia, nonché i loro stessi gesti scenici (l’alternarsi da un lato all’altro del ring, il porsi al centro e così via, come fosse un incontro, un combattimento). Le sembianze di un incontro di boxe si rarefanno in una sensazione per cui tutto quel che si vede è profondamente sbagliato, perché non è un incontro, ma un massacro, non è uno scontro, ma un sacrificio. È proprio questo tono a sviare e contrarre chi guarda in una sensazione d’angoscia che va oltre lo svolgersi dello spettacolo e si amplia nella coscienza che tutto quel che si è visto non è solo teatro: è una copia della realtà. Quindi Bull non è riducibile a una denuncia contro il sistema del capitale: è un affresco nudo e cruento di qualcosa che, molto probabilmente, molti in quella sala hanno vissuto, magari nella loro giovinezza, a scuola. È un fenomeno di bullismo (non è casuale il titolo) che si protrae per un’ora e che mostra con una certa dose di crudeltà l’annichilimento di Thomas, ma non solo: è un vero e proprio immolarsi del protagonista alla legge del più forte, perché di questo si tratta.
L’inizio ricorda l’attacco di uno dei principali romanzi di Pirandello, con Isabel che fa notare a Thomas che ha qualcosa sulla destra del viso, senza dire cosa. Un gesto per far sentire sin dal principio il disagio cui sarà sottoposta la vittima. È da qui, da questo particolare, che inizia la demolizione totale di un individuo. La cosa che destabilizza è che sembra di non trovarsi in un luogo di lavoro, ma a scuola, dove questa sarebbe una situazione gestibile, ingiusta, sì, ma con un limite. Destabilizza perché si insinua nello spettatore la coscienza che in questo caso in ballo c’è il posto di lavoro di un uomo con un figlio. Questo pone ancor di più l’accento sul dramma. E i cattivi, Isabel e Tony, non sono propriamente tali, perché rappresentano uno stralcio del reale, persone che realmente si comportano così per prevaricare su un altro individuo: non hanno niente della “maschera” del malvagio di turno.
Contemporaneamente però non si riesce a simpatizzare nemmeno per Thomas, goffo e impacciato, un uomo distrutto: si prova una certa pena, compassione forse, ma non simpatia. Perché Thomas è la vittima per eccellenza, cosa che si dice esplicitamente nello spettacolo. E qui si può vedere un riferimento, forse involontario, all’idea di capro espiatorio analizzata da Girard. Capro espiatorio, animale sacrificale, anche nei gesti, dato che Thomas, col suo sbuffare, ricorda un toro (bull appunto). A una corrida, ovviamente. E i due toreri lo infilzano a piacimento, lo sfiniscono e lo vedono finire esangue a terra. Per cui la regia ha voluto creare un ring, sì, ma in realtà sarebbe meglio definirlo un’arena.
Bull è uno spettacolo crudo, diretto, che non lascia spazio a nessuna speranza e traccia un quadro spietato della realtà, consegnando al pubblico una sensazione di angoscia legata al fatto che, magari, tutto quello che succede a Thomas, lo si è subito e non ce ne si è mai resi conto. Pone, insomma, di fronte a una verità, ossia che gli eccessi del sistema neoliberista possono portare alla completa distruzione di un uomo, senza appello, senza speranza, perché, di fondo, si è soli quando non c’è solidarietà e tutto è votato al profitto e al rendimento.