[com-pa-gnì-a] s.f. (pl. –gnìe): 1 Lo stare insieme ad altri, generalmente instaurando con essi un rapporto affettivo di vicinanza e condivisione.[1]
Vent’anni. Vent’anni sono passati dall’ultimo lavoro in studio che ci ha lasciato Fabrizio De André. Era il 1996, usciva Anime salve: il frutto di una gestazione lunga, laboriosa; un album nato dalla preziosa collaborazione di De André con Ivano Fossati e che segue a sei anni di distanza Le nuvole, chiudendo il cerchio di una carriera incominciata quattro decenni prima, in un altro mondo e in tutt’altra scena musicale. Anime salve rappresenta quello che per molti è il culmine creativo di Faber, nonché il suo vero e proprio testamento consegnatoci tre anni prima della scomparsa.
La chiusura di un cerchio, si è detto: sì, perché questo è un disco figlio tanto del De André più lontano quanto di quello più vicino. In Anime salve tornano quelle sonorità e quella ricerca musicale iniziata con Mauro Pagani che aveva portato nel 1984 allo straordinario Crêuza de mä; tornano anche i temi e i personaggi attorno ai quali si è sviluppata la carriera del cantautore genovese: gli emarginati, i diversi, gli esclusi dalla società benpensante, siano essi drogati, prostitute o suicidi. È un figlio cresciuto e maturato, si intende: Anime salve ci pone di fronte a nuove realtà, nuovi volti nascosti ed ostracizzati che vengono restituiti a una dignità che viene loro dai più negata. È sufficiente ascoltare le prime tracce del disco per farsene un’idea: dal transessuale Prinçesa al popolo rom di Khorakhané (A forza di essere vento) fino alla dichiarazione di Smisurata preghiera, che prende in prestito e porta in musica versi di Álvaro Mutis.
Molto è stato detto e scritto intorno a questo lavoro, al momento della sua comparsa quanto negli anni a seguire. Acclamato immediatamente da critica (si ricordino giusto le Targhe Tenco o il Premio Italiano della Musica 1997) e pubblico (che lo premiò con la vetta delle classifiche di vendita), Anime Salve ha lasciato un segno profondo e alzato un’eco rilevante in tutti gli scritti in cui si è cercato di raccontare e alimentare la mistica del cantautore all’indomani della sua dipartita. Al di là di quelle che possono essere le analisi tecniche e musicali; al di là delle ricerche di un significato unico e inequivocabile del disegno nel suo complesso; al di là della messa in controluce della poetica dei versi: cosa ci ha lasciato Anime Salve? Cosa ci lascia ogni giorno, oggi? Rifiutando – con una ferma dichiarazione di impotenza – la presunzione di volere e poter fornire una risposta, si cerca in queste righe di suggerire una riflessione. Una riflessione semplice che trae origine dalle parole che Fabrizio De André stesso ha speso in un paio di occasioni a proposito del proprio album.
È una specie di elogio della solitudine. Si sa, non tutti se la possono permettere: non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico […] Però, sostanzialmente quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo […] E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addirittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili, credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.[2]
E ancora:
È un disco che ha come tema fondamentale quello della solitudine, una solitudine che deriva da emarginazione, il più delle volte […] Bene, detto così sembrerebbe che il disco si rivolga soltanto alle minoranze emarginate, ma credo che questo sia riduttivo: io penso che proprio queste persone, o questi gruppi di persone, difendendo il loro diritto ad assomigliare a se stessi, difendono soprattutto la loro libertà, quindi penso che Anime salve sia soprattutto un disco soprattutto sulla libertà.[3]
Proprio qui sta il punto: cosa ci porta, a vent’anni di distanza, a riflettere ancora ascoltando Anime salve?
In un mondo, il nostro, esasperato da tensioni quotidiane, da un’attualità dominata dalla chiusura e dalla discriminazione del “diverso”, questo è un disco senz’altro ancora fresco. Popoli nomadi portati per natura o costretti a cercare una via di fuga da una realtà che non lascia loro alternative; esseri umani che rincorrono il proprio diritto di essere tali e di esprimere il proprio io all’interno di una società che si sente minacciata da qualcosa che non conosce; “spiriti solitari” (che è poi il significato etimologico del titolo dell’album) alle prese con la ricerca di se stessi. Non serve un grande sforzo di immaginazione per leggere nei versi di Anime salve quello che troviamo ogni giorno intorno a noi, tra un passo indietro e l’altro. Quello su cui può essere interessante puntare l’attenzione sono però i motivi per cui i versi di questo disco non sono attuali e per i quali le intenzioni di chi li ha scritti si sono allontanate in modo forse inesorabile dalla realtà.
In Anime Salve è bello pensare di poter leggere, ascoltare ed assaporare quella libertà della solitudine (le due sono qui forse troppo velocemente o ingenuamente accostate – lo si perdoni) messa sul piatto da De André: una sensazione sempre più difficile da provare, se non superficialmente, in un mondo senza distanze, dove tutti ti possono raggiungere e dove, se non ti cercano, puoi anche impazzire[4]. Una solitudine appagante e positiva, che possa aiutare a trovare e salvaguardare il piacere e il diritto di stare un po’ con se stessi. Di riflettere su quello che si è, su ciò che ci circonda e ciò che accade intorno a noi; ciò che ci inebria e anche ciò che ci travolge. Una solitudine che aiuta a conoscersi e capirsi, proprio per potersi aprire al contatto con altre solitudini.
È, d’altra parte, lo stesso autore a precisare di non voler limitare il proprio ragionamento a un «panegirico né dell’anacoretismo né dell’eremitaggio»; a dirla tutta, in realtà, De André nella specifica occasione tingeva il discorso con le sfumature politiche a lui sempre care («mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura». Così concludeva il primo dei cappelli introduttivi già visti sopra). Passando, qui, a lato del sottinteso – nemmeno troppo velato, in realtà – la riflessione vorrebbe farla propria, quella precisazione. Una precisazione tutt’altro che banale. Già, perché la solitudine persa e un po’ rimpianta in questi vent’anni non è affatto quella che auspica il rifiuto del confronto e una chiusura esasperata e scoraggiata. Anzi. È quella invece che di colui il quale sogna: sogna di potersi aprire, di potersi fidare e di poter finalmente – perché no – amare. Un sogno che coltiva la ricerca di se stessi e poi la speranza di una serenità condivisa. Perché quella compagnia di cui si sta chiacchierando lo sia veramente, condivisa.
Perché forse è da qui che passa il futuro: sia esso fatto di incontri di belle amanti scellerate, sia esso fatto solamente di scontri, rincorse, morsi e affanni per mille anni. Chi lo sa.
mille anni al mondo mille ancora
che bell’inganno sei anima mia
e che grande questo tempo che solitudine
che bella compagnia
Note
[1] Definizione da un vecchio dizionario Hoepli, ma insomma, qui uno vale l’altro.
[2] Elogio della solitudine: presentazione di Anime Salve al Palaverde di Villorba, Treviso, 23 marzo 1997. Ascoltabile in Ed avevamo gli occhi troppo belli.
[3] Introduzione al disco durante l’esibizione al Teatro Brancaccio di Roma, 14 febbraio 1998. Per chi non lo sapesse: Fabrizio De André in concerto (DVD).
[4] Semicitazione (cfr., se si preferisce) da un libro interessante, consigliabile: Pierdante Piccioni, Meno Dodici, Mondadori 2016.