intervista a cura di Victor Attilio Campagna
In questa chiacchierata con Fabrizio Strada ho potuto ripercorrere la via che lo ha portato alla sua opera prima, In male aperto (Formebrevi Edizioni, Caltanissetta 2016): un libro di poesie molto interessante, dove trova spazio uno scrittore di scavo, capace di cercare il fondo dell’occhio e di osservare la natura dal di dentro con una particolare attenzione.
Una nota personale. Ci tengo a raccogliere le parole di chi non è ancora un grande nome della poesia, ma di fatto crea versi e cerca di restituire il senso di un’esperienza, sempre preziosa in quanto forma dell’umano. Ci tengo perché è importante che si conoscano e si leggano questi poeti, anche per mostrare come la poesia non sia un gioiello in una teca di vetro, libera dal vincolo spazio tempo: essa agisce e influenza la realtà, il tutto in uno spazio raccolto. E lo fa sicuramente più e meglio di certa prosa a buon mercato.
Com’è nata questa raccolta?
Scrivo già da diversi anni. A un certo punto ho avuto l’esigenza di tirare le somme di quello che avevo raccolto, per incanalarlo in un libro. Come ben sai, il panorama editoriale è complesso. Io ho cominciato scrivendo a diverse case editrici. Dopo le solite proposte di contratti a pagamento, alla fine questa Formebrevi, una casa editrice siciliana, ha deciso di darmi fiducia e insieme abbiamo avuto l’idea di creare coi miei testi una specie di raccolta. Ho rastrellato per tre anni in modo uniforme tutto ciò che potesse svilupparsi attorno a un contenuto ben definito, tessendo un filo conduttore che è la visione che ho del genere umano, nei suoi aspetti sia affascinanti sia torbidi. Mi considero un osservatore.
La tua è una poesia interdisciplinare: c’è un forte legame soprattutto col cinema e con la musica. Di fatti, ho notato un ritmo particolare. È influenzato dalla tua attività musicale? E poi, come nasce il tuo rapporto col cinema?
Prima dell’amore per la letteratura è nato in me l’amore per il cinema. Il che è abbastanza inusuale. Generalmente ci si approccia prima alla letteratura e poi al cinema. A un certo punto della mia vita, da piccolo, mi sono ritrovato a rifugiarmi in un universo parallelo tutto mio che era il cinema appunto. Vedevo film dalla mattina alla sera – ero indisciplinato, mi rifiutavo di studiare – e nel cinema ho trovato una valvola di sfogo, che ha innescato una reazione a catena dove io mi sono ritrovato a consumare film come fosse una funzione primaria del mio organismo. La mia ispirazione nasce sì da diverse letture, brani musicali, ma soprattutto dal cinema francese, dal Neorealismo italiano, da Lynch, Wayda, Bertolucci che considero il più grande poeta vivente.
Io lavoro per immagini. Mi piace ricordarmi di un particolare, ascoltare qualcosa e da lì creare secondo il mio gusto qualcosa, però partendo da una suggestione, che poi si propaga naturalmente.
Che opinione hai della poesia contemporanea?
Andrebbe fatta una classificazione: da una parte chi ha voglia di comunicare e di differenziarsi, dall’altra chi si accoda a una corrente di personaggi, sfruttando l’onda del loro successo. La poesia per me è un’esigenza e non ci sono compromessi possibili, né censure di alcun tipo.
In poeti come Catalano o altri che fanno slam poetry non vedo alcun tipo di autenticità. Non vedo nulla di innovativo, nulla di passionale. Mi sembra solo che giochino, cercando di dimostrare qualcosa, ma senza dire niente di particolare. Mi piace pensare che chi scrive abbia veramente bisogno di farlo. Avendo a che fare con diversi amici che scrivono e mi chiedono un parere, non riesco mai a mentire: sono sempre sincero nel giudizio. Se vedo termini forzati, o tentativi di stupefazione a tutti i costi, leggo tutto questo come una finzione.
Il panorama poetico italiano mi pare messo sempre peggio a livello di pubblicazioni. C’è chi resiste scrivendo in maniera molto particolare, come Moresco, che non scrive versi, sì, ma in lui leggi cose molto innovative rispetto alla tradizione. Guardando più indietro ovviamente la situazione cambia. Per quanto riguarda gli autori emergenti, non mi sento di apprezzare quasi nessuno in realtà. Sarà un mio limite, ma la penso così.
Che ne pensi di Maurizio Cucchi e Milo de Angelis?
Loro hanno fatto il salto. Sono in un micro-Olimpo di venerazione. Ce l’hanno fatta. Non riesco però ad appassionarmi alla loro poesia, come invece succede quando leggo Alda Merini o Montale. Poi non sono qui a dare giudizi. In sintesi, ricevo emozioni concrete da pochissimi autori.
Un poeta una volta ha detto che ogni 50 anni si dice che la poesia è morta. È vero?
Ogni 50 anni no, non credo. Poi, più che morire la poesia, muoiono i grandi poeti: semplicemente c’è un cambio generazionale. Considerato che la vita è ciclica, la poesia deve adattarsi alle diverse epoche. Però non credo che la poesia sia morta, né che abbia subito colpi particolari, credo che semplicemente tutto sia ascrivibile al periodo storico che stiamo vivendo. Abbiamo avuto una fioritura eccezionale con la beat generation, dettata da diverse condizioni socioculturali. Ora c’è un piattume generale, per cui è comprensibile che si faccia più fatica a scrivere e a dare spazio alla cultura in generale.
La tua è una poesia di scavo, una poesia che cerca di andare sottoterra. La definiresti una ripresa del tema del sospetto, termine usato da Ricoeur nel definire la filosofia di Nietzsche, Marx e Freud?
Mi ritengo uno scavatore notturno, uno sciacallo. Mi getto sulla carcassa di me stesso. Mi piace quest’idea di essere sia paziente, sia dottore e psicanalista di me stesso. Il mio metodo di scrittura è quasi inspiegabile. Cerco di non assomigliare a qualsiasi cosa io abbia letto o visto, altrimenti sarebbe una citazione, un’adorazione compulsiva, per cui finisci col ritrovarti a fare le stesse cose di chi ammiri, diventando solo un epigono. L’immagine dello scavo mi piace molto: io scavo tantissimo, fino alle radici, finché non trovo qualcosa di prezioso e vero. Scrivo anche di altri, intesi come figure che percepisco, vedo, ma il mio è un lavoro principalmente su me stesso. Una specie di viaggio dentro la mia coscienza: è una scrittura molto intima. Scrivo di notte, perché è come se nel silenzio notturno fossi in una camera iperbarica e in essa sentissi scorrere il mio sangue.
Nel tuo libro ci sono anche dei poemetti in prosa. Qual è la frattura che ti fa decidere di non andare a capo?
In quel caso avviene che ho un foglio davanti e scrivo quello che mi passa per la mente. Se per la poesia c’è un lavoro sulla parola, sugli accostamenti, sul suono, nei poemetti c’è un flusso di idee che viaggia da sé, come se ascoltassi qualcuno e riportassi fedelmente quel che dice. Non c’è un lavoro di revisione dopo questi lavori: mi piace pensare che questi testi gettati sul foglio, col loro portato emotivo, rimangano così come sono nati. Come succede per gli avvenimenti quotidiani: non hai la possibilità di cambiarli una volta accaduti.
Per la poesia c’è un lavoro molto diverso: mi soffermo su una parola, su un concetto, su qualcosa che non mi convince. Adesso sto scrivendo dei racconti più istintivi. Ciò si denota anche dalla punteggiatura: è quasi come se io stessi riferendo qualcosa a qualcuno, per cui spesso non uso quasi per niente la punteggiatura. Mi piace l’idea che questi racconti siano qualcosa di compatto che ti viene addosso leggendoli, senza che tu ti possa scansare.
Mi hai detto che hai in porto un romanzo. Non sono tantissimi gli scrittori che fanno sia poesia, sia prosa, sia musica. Un eclettismo non tanto presente in questo contesto storico. Com’è nata l’idea di questo romanzo? Ci vuoi dare qualche anticipazione?
In realtà al momento è un tentativo. Potrei tranquillamente cambiare strada. L’idea è quella di scrivere in modo molto “poetico”: non potrei mai scrivere un romanzo dialogato, aderente al linguaggio quotidiano. Sto cominciando a delineare un personaggio, nel quale mi rivedo, che fatica a vivere sé stesso: ha diversi impedimenti causati dalla sua ragione. Si ritrova in una città non ben delineata, in un tempo non definito. È molto strano, liquido per ora. Ho ben in mente il concetto che vorrei sviluppare, ma soprattutto l’atmosfera, che è ciò che mi interessa di più. Sposo pienamente quel che sosteneva Flaubert: il contenuto è importante sì, ma la modalità di esecuzione è fondamentale. Per fare un esempio musicale, si potrebbe suonare anche solo una nota, ma quel che conta è l’intensità, l’esecuzione, le dinamiche dietro di essa. Mi sono soffermato a lungo su questo pensiero.
Qual è il fil rouge della tua raccolta?
Un insieme di sensazioni, valutazioni profonde che faccio su me stesso, sull’infanzia, sulla crescita, come se questo libro fosse una mini-biografia della mia vita fino ad ora, con dentro qualsiasi tipo di contaminazione. Tutto ha a che fare con diverse tematiche della mia vita, tematiche forti che mi hanno influenzato e condizionato. Quel che potrebbe raggruppare tutto è il male inteso come buio, vuoto, assenza di precetti.
Ecco, il male citato già nel titolo. Come mai In male aperto?
Da una parte per il gioco di parole, che è evidente, dall’altra il titolo è ripreso dal terzo componimento della raccolta, che parla di un ipotetico personaggio, Julian Malebranche, che abbandona sé stesso, la sua vita, i suoi ricordi, tutto quanto, come se fosse inseguito da un esercito che gli lancia addosso frecce, lance… L’ho immaginato come se fosse una scena mitologica. Julian in questo abbandono si sta buttando da una scogliera per non essere catturato, si uccide per non essere ucciso. Ecco un altro tema che mi interessa molto: quello del non farsi trovare. Julian si butta in mare, ma in realtà il mare in cui si getta non è altro che la degna conclusione di quello che ha accumulato in questi anni; come nell’Inferno di Dante, Julian si getta in tutto il male che ha assorbito nella sua vita. Il male aperto è un lasciarsi andare completamente, un abbandono totale, fisico, ma soprattutto spirituale, in se stessi. È come se avessi raggruppato in uno spazio tutte le cose negative, non edificanti, sbagliate della mia vita, così da poterle affrontare in blocco. Come disse la Merini in un’intervista: «Bisogna accettare tutto della vita, anche il male». Perché esso diventerà un pretesto per fortificarti. Inoltre, prerogativa del poeta è accettare tutto.
Repubblica ha riportato un intervento di una scrittrice turca in merito alle recenti persecuzioni di Erdoğan dopo il tentativo fallito di colpo di Stato. Questa scrittrice, citando Orwell, sosteneva che i poeti non risentono tanto dei totalitarismi, se paragonati a coloro che scrivono in prosa, che fanno una letteratura più autentica e che dà più spazio alle proprie idee. Sei d’accordo con questa affermazione?
È una riflessione molto interessante. Tutte le varie repressioni che hanno coinvolto la poesia, più che la poesia in sé puntavano a colpire il poeta. Mi viene in mente l’esperienza di De Sade, che fu imprigionato per le sue opere considerate oscene. Mi spiego: più che colpire la produzione del poeta, i regimi hanno sempre cercato di castigare lo stile di vita della persona arroccandosi in un conveniente moralismo spesso contraddittorio e ipocrita. Del resto, dubito che i cosiddetti poteri forti abbiano la sensibilità di comprendere appieno uno scrittore: valutano piuttosto la condotta e la visione che ha la società dei letterati. Un esempio su tutti è Pasolini: non credo che chi ai tempi lo criticava capisse a fondo Ragazzi di vita, Petrolio o Una vita violenta, tanto meno i suoi film. Pasolini infastidiva per il suo distacco politico rispetto alle posizioni prese inizialmente e poi per la sua condotta sociale. La cosa più grave che possa succedere è che un artista venga censurato. Spesso ciò è successo quando i contenuti erano considerati troppo “forti”. Ma questo significa poco: chi ha operato politiche censorie era interessato a punire la persona, più che l’opera in sé. Quando uscì La dolce vita, Fellini fu denigrato, quando uscì Salò di Pasolini, il film scatenò lunghe persecuzioni giudiziarie, un atto vero. Poi si è visto com’è andato a finire Pasolini. Il regime cerca di castrare le persone, il contenuto è di per sé irrilevante agli occhi del potere.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sono diversi e scollegati: il primo che mi viene in mente è Bukowski. Soprattutto mi affascinano gli autori che hanno avuto una vita pazzesca, rapportata al periodo storico. Verlaine e Rimbaud sono un buon esempio. Solo il fatto che Rimbaud abbia scritto quello che ha scritto in piena adolescenza rimane tuttora straordinario.
Mi suggestiona molto la mitologia greca, la poesia italiana, Foscolo, Leopardi, i Parnassiani, Campana… erano dei personaggi di cui oggi si sente la mancanza. Per farti un esempio di ciò che intendo con “straordinario” ti cito uno dei miei pittori preferiti: Turner. Turner quando dipingeva non se ne stava in uno studio ad aspettare l’ispirazione: si sporgeva dai finestrini dei treni per catturare l’essenza del vento o della pioggia.
Forse è stato già il Romanticismo in sé ad aver dato con la sua carnalità una spinta forte nella letteratura e nel rapporto stretto tra ciò che si scrive e ciò che si vive. Credo in autori come Mallarmé, Baudelaire, Proust, uomini autentici.