La felicità della contemplazione

Thomas Bernhard è uno dei maggiori scrittori tedeschi del Novecento. Nonostante sia poco conosciuto dal grande pubblico, fu anche un drammaturgo eccellente. Ed è un peccato, perché la grandezza di Bernhard è indiscutibile, così come la sua capacità di svettare sotto ogni aspetto dal punto di vista letterario e drammaturgico.

In questi giorni, dal 21 marzo al 2 aprile, è in scena al Teatro Franco Parenti L’apparenza inganna, un testo di Bernhard del 1983, diretto da Tiezzi e adattato da Lombardi. Avrebbe poco senso riportare la trama, perché il teatro e la letteratura del secondo Novecento tendenzialmente non hanno prodotto testi dotati di trame interessanti, fatte salve le dovute eccezioni. Lo spettacolo si incentra su un’alternanza di monologhi e dialoghi. Due atti, spettacolo breve. Due giornate, martedì e giovedì, e due fratelli, Karl (Sandro Lombardi), un ex giocoliere di fama mondiale, e Robert (Massimo Verdastro), un attore che ha avuto successo nel ruolo del Tasso di Goethe e che ora fatica a interpretare Re Lear perché gli difetta la memoria. I due fratelli si incontrano nelle rispettive case, il martedì da Karl, il giovedì da Robert.

Due atti, due ambienti, tant’è che il pubblico alla fine del primo atto viene portato in un’altra sala, per rappresentare fisicamente il passaggio da una casa all’altra. Nel primo atto, di martedì, si è a casa di Karl, che attende Robert, nel secondo, di giovedì, si è in quella di Robert. Tutto lo spettacolo è giocato sulla simmetria e sull’apparente differenza (l’apparenza inganna) tra i due fratelli, apparente perché i due si rassomigliano nei pensieri, nella ricerca ossessiva di un ordine prefissato nell’accogliere il fratello, entrambi compiangono Matilde, compagna di Karl, entrambi infelici, profondamente tristi. Il valore di questa rappresentazione è la sua organicità e capacità espositiva, sia nella struttura delle scene, sia nei movimenti dei personaggi, sia nei dialoghi sordi tra i due, in cui i personaggi parlano ascoltandosi a malapena. Giusto degli accenni di comunicazione.

Bernhard è uno degli autori di teatro dell’assurdo, ma in questo spettacolo non rispetta appieno i suoi canoni. Sì, sposa dei concetti relativi ad esso, come l’incomunicabilità tra i dialoganti, o la discussione a una sola via tra Karl e Maggi, l’uccellino nella gabbia, cieco dall’occhio sinistro, non si sa come sia possibile che Matilde se ne sia accorta, nonché alcuni gesti apparentemente insensati, poi le frasi ripetute più e più volte, senza un vero sbocco, senza una mediazione. Teatro dell’assurdo insomma, ma qui c’è qualcosa in più, emerge dell’altro: l’assurdo sta nello svolgersi stesso dei giorni, nella ricerca di una ragione, una continuità di vita, in due uomini che vivono costantemente nel passato e ormai sono il loro passato, nient’altro che ombre di loro stessi, incapaci di cambiare anche il giorno in cui alternano il loro incontrarsi. Karl e Robert rappresentano la mancanza di prospettive di un organismo occidentale che si rivela farraginoso, vacuo, inutile.

È innegabile che questo spettacolo abbia in sé una forza espressiva e concettuale rare a trovarsi, mostrando una declinazione di teatro dell’assurdo particolare, in cui il testo, le parti, sono ben comprensibili, e dietro qualche risata irrazionale, incomprensibile che scatta nel pubblico, c’è un’amarezza di fondo di fronte a quell’insufficienza organica che è la vita, espressione questa di un’assenza costante, esemplificata da Matilde, di cui Karl tiene tutto, non mette all’asta niente, giusto per sentire il profumo della sua presenza, così da trasformare una morta in fantasma e così da poterla rimpiangere per sempre. Del resto i due fratelli stessi sono fantasmi, insufficienti alla vita, solitudini complesse che ricavano da un forame di aria il pieno respiro di uno sbadiglio. L’incomunicabilità di Bernhard ferisce a fondo perché è profondamente quotidiana, riflette quell’incapacità certa di sapere cosa dire, cosa fare, quell’imbarazzo che sottintende l’impotenza di un mezzo, la parola, di fronte a una realtà che si sta facendo sempre più complessa. Ed è forse questa l’innovazione più grande del teatro di Bernhard e in particolare di questo spettacolo: il tramite, il linguaggio, diventa riflesso reale dell’assenza, del rimpianto, a constatare come il linguaggio possa parlare propriamente solo di ciò che è stato, difficilmente di ciò che sarà.

Questo spettacolo va visto per tante ragioni, su tutte il fatto che credo sia di importanza capitale per la nostra contemporaneità riflettere sul nulla e sulle sue conseguenze, soprattutto in un contesto estremamente superficiale e immediato come il nostro, dove tutto si voca all’utile. Sappiamo bene che l’utilità è solo una consolazione vana.

L’apparenza inganna insegna il dubbio e i suoi attori, bravissimi, espongono con la loro tristezza come sia l’inutile l’unica speranza per potersi redimere da un’assenza opprimente. Il mare, il gabbiano, le distese aperte. La contemplazione. L’inutile come fine ultimo di una felicità fatta di contemplazione.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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