Alla metà degli anni Venti Federico García Lorca trasferisce la sua anima e la sua arte sulle tribù dei gitani andalusi, nelle quali si insinua per scoprire la grande forza della loro unione, per descriverne poi in poesia le dinamiche di vera, speciale ed esotica compagnia tra uomini.
La luna venne alla fucina
col suo sellino di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
la luna muove le sue braccia
e mostra, lubrica e pura,
i suoi seni di stagno duro.
Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e bianchi anelli. […][1]
Così inizia, nei primi versi del Romance de la luna, luna (Romanza della luna, luna), il Romancero gitano, lʼopera poetica che più, tra quelle di Federico García Lorca, rispecchia lʼintero significato del tema di questo numero, lʼesagramma 13, La compagnia fra gli uomini.
Artista a tutto tondo, ma soprattutto poeta e drammaturgo di grande sensibilità, García Lorca era un intellettuale antifascista, omosessuale e di liberi ideali che non aveva paura di dichiarare a gran voce la sua avversione nei confronti delle leggi e della politica franchista. Acclamato universalmente per la bellezza delle sue opere («La poesia era lui», disse Luis Buñuel[2]), ma allo stesso tempo reietto della società spagnola dellʼepoca perché troppo popolare e troppo poco vanguardista[3] ed emarginato dalla compagnia dei suoi uomini – quella della Spagna di ceto medio alla quale lui stesso apparteneva –, tra il 1924 e il 1927 si cercò una nuova compagnia di uomini, additati come stranieri, intrusi e violenti, e considerati allʼunanimità come persone non solo da evitare, ma dalle quali scappare. I gitani andalusi riconobbero in García Lorca un uomo dallo spirito pacifico e gentile, curioso e osservatore, e lo accolsero tra le loro fila, da dove lui osservava attento e partecipe, seppur in posizione defilata, la loro cultura e la loro tradizione. Da questo periodo di osservazioni scaturì il Romancero gitano, pubblicato nel 1928, nel quale il poeta descrive in termini che si intuiscono affascinati, meravigliati e profondamente ammirati la struttura, le abitudini, la religione, i riti, lʼunione e la profonda comunione del popolo gitano, e lo fa con una delicatezza e una sensibilità metaforica incredibile, che quasi rende astratta la profondità dei versi.
Lʼesagramma 13 concorda con il Romancero gitano in diversi modi, primo dei quali è il vero e proprio senso del tema: la compagnia. García Lorca descrive il popolo gitano come una sorta di corpo unico i cui organi sono rappresentati dalle diverse tribù. Pur essendo gruppi distinti e spesso estranei tra loro, le soddisfazioni, le delusioni, le celebrazioni e i lutti non riguardano solo lʼindividuo, ma il popolo gitano intero, i cui membri armonizzano le loro emozioni e azioni in una sorta di empatia collettiva che rende il gruppo omogeneo, unito e forte. Dato il grande impatto emotivo, García Lorca illustra questa particolarità dedicando poesie principalmente alle tragedie che occorrono nella vita delle varie tribù, e descrive con autentico struggimento (quasi facesse parte egli stesso della compagnia gitana) il lutto generale per la morte – violenta e non – dei singoli individui. Prendendo per esempio i magnifici versi già citati del Romance de la luna, luna, nel quale si narra della morte di un bambino, il poeta esorta la luna, allegoria della morte che echeggia nellʼintera raccolta, a scappare il più presto possibile per non subire lʼira e il lamento dei gitani, il cui dolore racchiude tutto il senso di profonda appartenenza di questo popolo:
[…] Come canta il gufo,
ah, come canta sull’albero!
Nel cielo va la luna
con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono,
gridano, i gitani.
Il vento la veglia, veglia.
Il vento la sta vegliando[4].
La seconda concordanza con lʼesagramma è data dalla forza di cinque delle sei linee, che nellʼopera si traduce nella figura del gitano maschio. Guerriero di straordinaria abilità, a lui è riservato il ruolo dominante allʼinterno della tribù: il potere decisionale, la missione della protezione del villaggio, la gestione delle attività dei singoli individui, la scansione dei riti religiosi, la regolazione dei conti dʼonore, lʼenumerazione degli impegni allʼinterno delle singole famiglie… ogni cosa che rientri nella sfera decisionale e gestionale della famiglia, della tribù o dellʼintero popolo gitano è affidata allʼuomo, che diventa una figura forte e dominante non solo a livello interno per la tribù, ma anche dal punto di vista esterno di chi del popolo gitano non fa parte e si vede costretto a confrontarsi con la loro particolarissima e a sé stante realtà.
Di nuovo, la percezione che se ne ha al giorno dʼoggi è notevolmente diversa, ma ciò che descrive García Lorca nel 1928 è la figura di un uomo potente e consapevole della propria potenza, importanza, del suo ruolo alternativamente di dominatore, protettore e vendicatore. Tutti termini passionali, questi, che emanano forza e a volte – e a ragione – anche violenza, perché la vita allʼinterno della tribù non era pacifica né priva di pericoli: come a mettere tanti galli nello stesso pollaio, gli uomini gitani spesso si scontravano tra loro, tutti forti del loro ruolo dominante e con nessuna voglia di retrocedere per lasciare il passo a un altro uomo. Non era raro, allʼepoca, che gli scontri sfociassero in duelli o sfide dʼonore. Ciononostante, tali scontri erano tollerati soltanto allʼinterno della tribù: se un gitano durante un duello moriva per mano di un altro gitano la regolazione dei conti avveniva tra le singole famiglie coinvolte, mentre se accadeva per mano di uno “straniero” (uno spagnolo, nella fattispecie), il sentimento di vendetta che ne scaturiva era selvaggio e il lutto forte ed echeggiante.
[…] Tre sbocchi di sangue ebbe
e morì di profilo.
Viva moneta che mai
tornerà a ripetersi.
Un angelo gitano adagiò
la sua testa su un cuscino.
Altri di stanco rossore
accesero una candela.
E quando i quattro cugini
giunsero a Benamejí,
voci di morte tacquero
vicino al Guadalquivir[5].
Il ruolo della donna, invece, è il terzo punto di contatto con lʼesagramma 13: la linea spezzata, quindi debole, che con la sua fertilità e femminilità lega gli elementi e mantiene lʼarmonia nella compagnia. La donna del Romancero è una creatura carnale, sensuale e profondamente erotica, che ha ben chiaro il potere che la sua presenza ha sullʼuomo, e che sa perfettamente come usarlo. Lʼuomo in presenza della donna si atteggia a corteggiatore, ad amante, a essere governato da puro istinto («verde que te quiero verde»[6], dove la parola “verde” sta a significare non tanto il colore ma il senso di “erotica”, “spinta”). La donna, invece, consapevole del proprio ruolo, si comporta in maniera sensualmente remissiva, rimanendo sempre un poʼ in disparte sulla scena, anche se risolutamente presente, per esaltare davanti alla tribù lʼuomo che ha scelto e per restare sempre sua nellʼintimità della casa. La donna è lʼinizio e la fine della tribù, la proverbiale corte che fa il re: senza la donna a far sentire lʼuomo allʼaltezza del suo ruolo, il popolo gitano si estinguerebbe.
Ecco la magia del Romancero gitano, che la bellezza delle pagine scritte fa risuonare fino a noi: la curiosità di un uomo ha trovato libera interpretazione nella disponibilità di un popolo particolare e fiero, che ha adottato questo poeta dal canto profondo quando nessun altro lo voleva.
Note
[1] Federico García Lorca, El romance de la luna, luna, in Id., Tutte le poesie, a cura di Carlo Bo e Glauco Felici, Garzanti, Milano 2004, pp. 460-461.
[2] Federico García Lorca, Il mio segreto: poesie inedite 1917-1919, a cura di Miguel García-Posada, tr. it. di Glauco Felici, Mondadori, Milano 2012, p. VIII.
[3] Ivi, p. XIV.
[4] Federico García Lorca, El romance de la luna, luna, cit., pp. 462-463.
[5] Federico García Lorca, Muerte de Antoñito el Camborio, in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 502-503.
[6] Federico García Lorca, Romance sonámbulo, in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 468-469.