VATE VOBIS
Vate vobis,
finalmente è arrivato il vostro turno di
a] tirare avanti l’ingranaggio della catena di montaggio,
b] fondare case editrici, riviste, rigorosamente a vostre spese,
c] sudare, come maiali, sull’organizzazione di antologie e volumi collettivi,
d] ricercare di fare seria ricerca,
e] inventare testi battendo tristi tasti di tastiere toste.
Vate vobis,
è venuto il regno della dissoluzione di ogni forma poetica,
fiat lux et fiat facta est in stabilimentum
Thermae Himerae, or Tychy (Poland), or Sterlingh Heights (Michigan),
è il momento dell’ortolano, avanguardista del rafano, di tentar la metrica,
la metrica all’amatriciana del ristoratore, vincitore del concorso di Trescore,
o l’endecasillabo sdrucciolo di vaselina, distintivo dell’artista ragazzina.
Vate vobis, siamo in democrazia, la lirica a due lire,
lo stile è in svendita a chiunque abbia una stilo,
il medesimo Giovanni lo stilita ci ha insegnato che cagare
dall’alto di una colonna (di rivista o di giornale?) non è peccato,
essendo addirittura requisito di santità dell’oggetto defecato.
Vate vobis,
non incito alla cultura codina del circolo ristretto,
che restringe l’accoglienza culturale a muri di lazzaretto,
è che, le avanguardie, tutte e mille, hanno avuto unanime sentore
ch’è il momento esatto, adesso, di strappare la casalinga di Voghera alla sua telenovela,
gli scambisti di San Salvatore alla loro (meritata) orgia con tre uomini di colore,
o il sacerdote di Masera ai vespri della sera,
senza rilevare sociologicamente, facendosi un minimo di mazzo,
se a costoro dell’impresa artistica interessi un cazzo.
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IL SIGNORE DELL’ANELLO
Non so, allo stato delle cose, «uno stato che non riesce a stare fermo
– mi insegni coi tuoi sguardi adulti, interrogativi- che stato è?»,
se avrò l’onore di non impazzire in mezzo alle grida della battaglia,
se sarò ancora in grado di abbracciarti quando sognerai di inghiottire cicche finte,
se avrò sempre la forza di trasfigurare in voce i tuoi disperati silenzi,
se sarò vivo, vivace, come vuoi tu, anche superati i quarant’anni.
Allo stato delle cose c’è un anellino di nebbia, che miro e rimiro, sul mio anulare sinistro,
forse sarà l’effetto dell’alternanza notturna tra cocktails e delorazepam,
c’è un anellino di nebbia rubato al banchetto delle caramelle,
dove eri tutta intenta a fare incetta di cuori di gelatina gommosa
da nascondere nell’armadio a oltrepassare l’inverno,
e nessuno s’è accorto che ne ho rubato uno, nessuno che lo indosso,
che di tanto in tanto ne succhio la circonferenza, sa di fragola,
e mi frena le lacrime, e mi frena la convinzione di non avere futuro,
no future, insomma, mi hai conosciuto che ero un punk, un cinico, senza cresta.
Se avrò l’onore di non impazzire in mezzo alle grida della battaglia,
se sarò ancora in grado di accarezzarti quando ti svegli a notte fonda,
e mi trovi a scrivere, a leggere, o a inventare chissàchetipo di nuova follia,
se basterà il contatto della mia mano a farti da Daparox,
se saremo ancora vivi, vivaci, superata quest’infinita recessione,
ci basterà fondere oro e nebbia, conservare un cuore di gelatina gommosa,
e avere un unico anulare sinistro, signore di ogni anello.
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BRONCHOPNEUMONIA
Sei arrivata dalle oscure terre del freddo Est,
riarse dai roghi luminosi di Jan Hus e di Jan Palach
– mi ricordano il suono indistinto del tuo nome
che non so ancora dire, che non so ancora urlare-,
sei arrivata con una borsa piena delle mie fatiche di Ercole
senza riuscire a scambiare i tuoi occhi coi miei occhi,
senza riuscire a scioglierti sotto i colpi del sapore corrosivo del mio alito
(la mia lingua taglia, erode, brucia).
Alle anime gemelle non occorrono due anime,
si scontrano come corpi nella concretezza della terra,
si scontrano sulle bollette da pagare, sui conti in rosso, su vite in bilico,
alle anime gemelle non occorrono due corpi
attraverso cui scopare, rotolandosi voluttuosamente in letti madidi
su cui restano impressi i segni delle catene,
alle anime gemelle non occorrono due menti,
alle anime gemelle non occorrono due cervelli,
alle anime gemelle non occorrono due cuori.
Sei volata via come la brezza del fantasma di un amore fragile
lasciandomi il compito di rimettere insieme i cocci
della nostra nuova lingua: italiano – english – český,
in un threesome che, ragionevolmente, caratterizzerà la nostra storia,
a fare i conti con il tuo timore di amare e la mia incapacità d’essere amato,
a tossire, a vomitare sangue, a bruciare (due mesi?)
d’una inarrestabile bronchopneumonia amorosa.
Alle anime gemelle non occorre niente,
bastano a se stesse, figurine doppie
sovrapposte sull’album dei ricordi della vita,
a mettere in rilievo un attimo brillante di felicità
al tatto di un Dio che colleziona cadaveri e esperienze altrui,
a Milano, a Karlsbad, o a Milansbad.
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DECRETO SULLE EMISSIONI MASSIME CONSENTITE
La burocrazia, madre di ogni stato civile, senza civili smentite,
ha finalmente emesso un nuovo decreto sul valore sociale dell’arte
da lasciare in bella vista, in sede prefettizia, sotto lussuosi fermacarte,
in materia d’emissioni artistiche massime consentite.
La certezza è che qualsiasi forma d’arte sia fonte d’avvelenamento
onde l’urgenza decretomaniaca di una inavvertita mitridatizzazione (della popolazione),
ha condannato il senatore del Molise a un quarto d’ora di santa abnegazione,
fino a scomodare i sonni sacri dei membri del nostro Parlamento.
Si ordina il fallimento di tutte le case editrici di modeste dimensioni,
di tutte le associazioni a scopo culturale, dei giornaletti di rione,
caso mai, con la cultura, ci scappino rivoluzioni,
l’ultimo exit-poll mostra che il mix tra Faletti e Fabio Volo conduce a sedizione.
I nove senatori intervenuti al dibattito e alla votazione,
hanno equivocato, con inattaccabile tempismo:
verso l’arte l’italiano medio non ha nessuna vocazione,
essendo destinato a morir di decretinismo.
[M’è sfuggita un’altra occasione di tacere in rima,
che l’amico Giorgio rimprovera rima telefonata – come a menare il Kant per l’aia-;
non si addicono, effettivamente, tentativi di rocambolare, con ‘sto clima
di correnti intercettazioni di Telecom Italia].
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DALL’EURO ALLA NEURO
Sto ancora a battere sui tasti, in cerca di una rima telefonata,
una rima che a volte viene, a volte rimane a letto, mai alletta,
in certi casi allatta, vittima dell’amara guasconata,
del farmi rimanere umile scrittoruncolo in bolletta.
Dalla bolletta dell’acqua alla bolletta dell’elettricità
da disoccupato sperimento la mancanza di celebrità,
senza fame di fama, continuo ad ingrassare
nessuna canna (del fucile),
essendo un mero alternativo, esente dall’urgenza di rubare.
Prima i caffè costavano 1.000£, e adesso 1€,
cose, che a rifletterci, dovrebbero mandar tutti alla neuro,
neurodeliranti in Stato neuro vegetativo,
nipoti di uno stato che fatica ad essere in attivo,
viviamo, giorno dopo giorno, in completa assuefazione
del fatto d’esser mantenuti dalla precedente generazione,
complice del dissesto, attraverso decenni d’urne accomandatarie,
che, speriamo, non si trasformino a breve in urne cinerarie.
Dall’euro alla neuro, in Deutschland (über alles) non succede,
noi terroni d’Europa non abbiam diritto d’uscire dalla recessione
accompagnati al baratro da una classe indiligente in malafede,
essendo terre ricche d’acque, meritiamo solamente stagnazione.
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QUI GLI AUSTRIACI SONO PIÙ SEVERI DEI BORBONI
L’austriaco, di vera stirpe ariana, è molto severo, non si incanta,
achtung kaputt kameraden, pretende massima flessibilità
in modo da rimettere l’Europa intera a quota Novanta,
bombarda le borse di Milano assolutamente gratis,
meglio di quanto fecero Radetzky o Bava Beccaris.
Potremmo tentare ancora con uno sciopero del tabacco,
mischiando hashish a marijuana con distacco,
anche se non credo che funzionerebbe lo sciopero del lotto,
siamo troppo lontani dai moti del 1848,
ora l’intera nazione tira a arrivare alla mattina,
sognando di incassare un ambo o una cinquina.
Sperando in un ritorno della dinastia Borbone
i milanesi non sono avvezzi alla rivoluzione,
scalpitano, reclamano, ti mandano a cagare,
tornando il giorno dopo in ufficio a lavorare,
non avendo l’energia dei siciliani buontemponi,
l’unica regione a statuto speciale a protestare coi forconi.
Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni,
la Merkel tuona da Bruxelles minacciando risoluzioni
del Consiglio Europeo, in cui siedono retribuiti in modo sovrannazionale
i vari prestanome dell’una o dell’altra multinazionale,
indecisi, con rigorosità scientifica tutta teutonica,
se far fallir la Grecia o un’azienda agricola della Valcamonica.
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UN CIECO NON SA SPEGNERE LA LUCE
L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce,
tutti i ciechi del mondo non sanno spegnere la luce dell’arte,
e, se anche fallisse ogni azienda elettrica, l’arte continuerebbe a brillare,
rabbuiando i conti del supercapitalismo nomade.
L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce,
e, quando saremo incasellati nell’archivio di un cimitero,
o, magari, nella comunità solidale di una fossa comune,
il buio non smetterà di scintillare, anche con la semplice forza
d’un lumino rosso bagnato dal vento e rattrappito dalla pioggia.
L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce,
anche quando saremo chiusi nel buio di un’urna o di una bara,
uccisi dalla recessione, dal cancro, da un colpo di stato, da un colpo apoplettico
l’artigiano non smetterà mai di battere sui tasti
o di comunicare con microchips inseriti nel cervello,
erede del sumero, dell’ittita, o del lineare B,
non smetterà mai di darsi fuoco, accendendosi,
contro la cecità di un mondo abitudinario.
Quando Odino comanderà di farmi da parte,
in modo scorbutico, essendo una divinità teutonica,
avrò la soddisfazione di non aver contribuito a fare fallire
l’azienda elettrica nazionale.
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SCACCO ALLA SCACCHIERA
L’intellettuale moderno non è un intelleattuale,
non acquista i volumi a cui collabora,
disprezza ogni forma di auto-finanziamento,
maneggia denaro scontento (se non sia un versamento);
tra il dire e il fare c’è di mezzo un finanziatore,
tutti intellettuali del dire, niente da fare,
nessun intellettuale del fare, niente da dire,
tutti intellettuali a giocare ai ricchioni
col buco del culo di accaniti anfitrioni.
La casa editrice non è casa di proprietà,
è casa in affitto, in cui all’inquietante inquilino
conviene rubar le finestre e bucare il soffitto
in base al diritto d’autore, che si crede umanista integrale,
mantenuto come un cane, sotto il tavolo, a tentar di arraffare,
come se due testi del cazzo scritti in cinque minuti
fossero onesto cambio a ogni rischio editoriale.
Presto avverrà il saldo di fine stagione,
l’importante è non fare saldi nel burrone,
in un Italia stramazzata dalla T.a.r.e.s,
finta repubblica, senz’ombra di res,
col pubblico attaccato alla canna del gas,
autori imbecilli, che vi sentite Dumas,
fallita ogni forma di microeditoria sotto i colpi dell’Imu,
inquilini di case fallite, come co-intestatari,
vi divertirete a subire la T.a.r.i,
e saran cazzi amari.
07.01.2017
Pozzoni è un ribelle e ha il difetto dell’«intelligenza». Fermatelo!