Intervista allo scultore Krzysztof Bednarski

Bednarski e Levitas

Bednarski e “Levitas”

Da un lato il lavoro dell’artista segue necessariamente alcuni modelli, dall’altro genera nuovi linguaggi espressivi e dimensioni di senso. Con la mostra Gravity, Krzysztof Bednarski interpreta questi rapporti di mutua attrazione che sono in gioco nel fare arte come forze di gravità.

Il tema della gravità: da dove sorge l’idea di affrontare un discorso del genere? Mentre in passato ha portato avanti dei lavori legati al contesto socio-politico della Polonia (mi riferisco per esempio a opere come Karl Marx’s Total Portrait e Victoria Victoria), qui sembra imbarcarsi in una riflessione più esistenziale e universale. Come si colloca dunque Gravity rispetto al suo percorso artistico?

Da tempo lavoro su temi ciclici, uno di questi è quello di Karl Marx, che tocca questioni socio-politiche; un altro grande ciclo di lavori si chiama Moby Dick ed è quello più legato con il linguaggio della scultura e tocca temi più metafisici che politici. Nella mostra Gravity non presento solo sculture ma anche istallazioni site specific. Gravity ruota attorno a un tema fondamentale per l’arte scultorea, ovvero lo spazio. Lo spazio in cui viviamo non è una gabbia di tre dimensioni nella quale siamo rinchiusi ma è costruito dai nostri sensi. Oggi purtroppo i nostri sensi sono atrofizzati dalle tecnologie che utilizziamo e che sempre di più escludono esperienze tattili, uditive, olfattive. Come disse il poeta Rainer Maria Rilke (che da ex segretario di Rodin di scultura se ne intendeva) «i nostri occhi sono ricoperti di pelle» e non vediamo davvero ciò che guardiamo. La scultura ristabilisce questo legame fisico, animalesco, tra noi e lo spazio, aiuta a trovare l’armonia perduta non solo nel corpo ma nel cosmo. Non a caso nel mio Moby Dick ho utilizzato la musica dei pianeti registrata dalla NASA e tutta la mostra poggia sul gioco tra il finito e l’infinito. Questi due temi, il sociale e il metafisico, non sono in contraddizione ma al contrario sono complementari, rappresentano due dimensioni del nostro vivere contemporaneo in continuo dialogo tra loro.

Sia in Gravity sia in Ubi Sunt? (quest’estate in esposizione sempre a Wrocław) vediamo protagonista la forma archetipica della balena. Come artista si sente di più vicino a un Achab, che fa dell’animale l’obiettivo di un’incessabile ricerca, o a un Giona (o magari un Pinocchio), che dall’incontro marino può trovare l’occasione per una “redenzione”?

Per rispondere devo raccontare la storia del mio Moby Dick: una barca che ho trovato rovesciata sulla riva del fiume Vistola, in inverno, dunque coperta di neve, dunque apparsa da subito come la balena bianca. Per me una forma ibrida, due in uno: la preda e il cacciatore, Achab e Moby Dick sono nella stessa forma. L’atto di decostruzione e di nuova ricostruzione in spazi museali o di gallerie riflette questa duplicità. Ho creato uno spazio vuoto: l’involucro della balena. Uno spazio negativo-attivo in cui il visitatore si confronta con le sue paure e i suoi pensieri. In un certo senso è lui a diventare come Giona/Pinocchio. Io sono invece allo stesso tempo sia il capitano Achab in eterna caccia della sua preda, che è anche il suo obiettivo, sia Moby Dick, perché questa coppia è per me un simbolo della ricerca dell’artista di se stesso attraverso il processo creativo. Si potrebbe dire che le mie opere sono delle trappole in cui far cadere lo spettatore per fargli incontrare se stesso, come successe a Giona e a Pinocchio. Trappole che funzionano da stimolo per risvegliare i sensi e dunque per riconnettersi al se stesso profondo.

Il suo lavoro, soprattutto nel suo aspetto concettuale ed emozionale, è fortemente ispirato dalla poesia: oltre a Melville, Conrad, il modernista polacco Tymoteusz Karpowicz (al quale è dedicata Gravity), quali sono gli autori che ama e che la ispirano di più? Per quanto riguarda invece l’aspetto materiale e formale, invece, nella sua scultura si riscontra una vena “classica”, ma anche un riferimento all’arte tribale. Chi individuerebbe come suoi modelli e influenze?

La lista di poeti che mi ispirano è molto lunga, a cominciare da poeti classici come Dante per finire a contemporanei che conosco o ho conosciuto anche personalmente. Tra quelli che conoscono anche gli italiani ci sono Josif Brodskji e Wyslawa Szymborska, ai quali ho dedicato delle opere, e anche Dylan Thomas, che ha ispirato un grande ciclo dal titolo di un suo poema, Vision & Prayer. Tymoteusz Karpowicz, che ho avuto il piacere di conoscere, è considerato come il padre della “poesia linguistica polacca”, un gruppo che faceva ricerca non solo sul contenuto ma anche sulla forma, nutrendo grandi sospetti verso la forma della comunicazione verbale anche per il fatto che viveva sotto il regime comunista. Da questa poesia hanno avuto origine del resto i miei lavori su Karl Marx e gli altri temi politici, costruiti sull’ambivalenza del linguaggio e nati nel periodo degli ultimi due decenni del comunismo. Per me non si è trattato di illustrare quelle opere poetiche, bensì di assorbire il senso di quel linguaggio e di trovare un corrispondente nella scultura.

Nel campo della scultura non è dunque un caso che mi sia interessato di quei maestri che si sono concentrati sul linguaggio della scultura cercando di ampliarne il campo. Tutto ha inizio da un lato da Brâncuşi, dall’altro da Duchamp. Per me è ugualmente molto importante tutta l’avanguardia russa, per esempio Malevič, a cui ho dedicato alcuni miei lavori, ma senza dubbio anche la scultura contemporanea inglese e tedesca hanno avuto su di me un’influenza non trascurabile. Per quanto riguarda l’arte tribale, la sua presenza nella mia arte si lega al mio viaggio iniziatico (nel senso letterale del termine) in Africa Equatoriale, nel Golfo di Guinea, la regione del voodoo, dove nel 1986 ho passato alcuni mesi che si sono rivelati determinanti per ripensare totalmente la scultura e lo spazio. È stato infatti proprio al ritorno da quel viaggio che ho realizzato in Polonia il mio Moby Dick.

Spesso l’arte contemporanea si ritrova impantanata nell’autoreferenzialità e dell’elitarismo e di conseguenza si verifica un’incomunicabilità con la società. L’Artista si trova a domandare «Mi senti?» in tutte le lingue del mondo, ma quale lingua dovrebbe parlare per essere veramente compreso? Quale ritiene che sia il ruolo dell’artista rispetto alla società contemporanea?

Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un libro, non poche frasi. È infatti la domanda-chiave dell’arte. Quando nel 1991 ho pubblicato il mio primo catalogo intitolato Ritratto totale di Karl Marx l’ho aperto con un motto di Mario Schifano, un grande artista e mio amico carissimo: «L’artista non può escludersi dalla società in cui vive». Mario infatti nelle sue opere ha spesso reagito a tutto ciò che accadeva intorno a lui, nella società italiana come nel mondo, e per questo gli è molto piaciuto il mio lavoro legato a Marx, perché in questo lavoro è centrale proprio il problema del rapporto tra l’artista e la società, e io mi interrogo sui confini tra l’arte e la politica. Non si tratta di fare dell’arte di denuncia ma di porre attraverso un’opera la domanda fondamentale: qual è il mio ruolo all’interno della società in cui vivo. D’altra parte, però, la cosiddetta “arte impegnata” nasconde delle trappole, soprattutto quella della manipolazione contro l’intenzione dell’artista: cambiando il contesto si può cambiare il significato di un’opera. Da qui sono nate ad esempio le mie sculture “dal significato ambivalente” (Karl Marx, Vittoria, Ritratto collettivo, ecc.), nate negli anni Settanta e primi Ottanta.

Molto spesso gli artisti nella loro ricerca sono più avanti, con le loro idee e il loro linguaggio, rispetto alla cosiddetta società, ma dopo anni spesso le loro scoperte diventano patrimonio comune e vengono utilizzate da tutti. Basti pensare al design, alla comunicazione pubblicitaria o alla moda, ma anche al cinema, per vedere come certi linguaggi scoperti dagli artisti diventino col tempo linguaggi comuni. Ecco dunque che il ruolo dell’artista per me dovrebbe essere quello del pioniere, del ricercatore nel campo delle idee estetiche e della comunicazione, del precursore di tendenze, linguaggi e sensibilità. Allo stesso tempo, però, è per me molto importante non soltanto ampliare la ricerca nel campo della scultura, ma anche continuare il dialogo con il passato, da questo hanno origine le frequenti citazioni presenti nella mia arte.

Lei vive a Roma ormai da molto tempo e la sua carriera artistica è affermata a livello internazionale. Quanto si sente ancora legato alla sua Polonia, sia personalmente che artisticamente?

Penso che siamo tutti legati al luogo in cui nasciamo e in cui ci formiamo in gioventù. La vita in Italia mi ha permesso di avvicinarmi alle sorgenti mediterranee dell’arte, la ricchezza dell’arte italiana è formativa per ogni artista ma allo stesso tempo il mio passato in Polonia è stato molto importante per la mia formazione e i suoi effetti ritornano nelle mie opere. Penso ad esempio alla mia esperienza con un uomo e artista straordinario come Jerzy Grotowski, per cui ho lavorato alla fine degli anni Settanta. Ugualmente significativo è stato crescere durante una dittatura, un’esperienza che mi ha permesso di apprezzare maggiormente la democrazia occidentale. Non è stato facile per me passare dall’essere un artista cresciuto in una società priva di mezzi materiali alla condizione di un artista occidentale sottoposto alle leggi di mercato. La mia non è stata comunque una vera emigrazione poiché non ho mai interrotto i rapporti con il mio paese di origine, continuando a lavorarci e a fare mostre, anche mentre vivevo a Roma. Negli ultimi due anni, poi, in seguito agli impegni assunti con la docenza presso l’Accademia di Belle Arti di Varsavia, e alla maggiore apertura del mercato privato dell’arte in Europa dell’est, mi sono trovato più spesso in Polonia che in Italia, paese che purtroppo ha subito una forte crisi nel campo dell’arte, e in cui non è più così semplice lavorare nel campo creativo.

Al momento verso quali progetti sta rivolgendo la sua ricerca artistica? È più orientato a un lavoro di reinterpretazione e metamorfosi di motivi e figure già affrontati o ci sono delle sfide completamente nuove che vorrebbe intraprendere?

Come si può vedere nelle mie ultime mostre di Wrocław, cicli di lavori come quello di Moby Dick non sono ancora esauriti, ma offrono molto materiale da utilizzare per nuove sculture, come è successo per i grandi Moby Dick in alluminio qui presentati per la prima volta. In tutte le mie mostre, comunque, accanto a rielaborazioni di vecchi temi ci sono opere nuove, come ad esempio alla BWA Awangarda con le istallazioni inedite della Grotta magica, dedicata a Lars von Trier, e di 600 e 78 (parallasse). Nuove idee ci sono sempre, il lavoro della scultura è un lungo processo e mai si sa dove si arriva, ma questo è anche il bello del fare arte.

intervista a cura di Ilaria Iannuzzi

 

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Autore

  • Comincia gli studi a Pisa per poi approdare a Milano, dove si laurea in filosofia. Grande appassionata di arte, si ostina ad andare in giro senza gli occhiali per vedere il mondo come se fosse un quadro impressionista.

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