Inseguire un sogno letterario, anche a costo di entrare in rotta con i vertici di una grande casa editrice e con quella società di cui viene soddisfatta l’economia del gusto, ancora inceppata nelle linee guida della precedente cultura letteraria.
Dal Duecento a oggi è cambiato radicalmente il concetto di lettura e insieme quello di pubblicazione. Si è passati da una trasmissione prevalentemente orale a una lettura individuale; da una lettura riflessiva, volta a comprendere meglio Dio e il sentimento religioso, a una di svago. Insieme, è cambiato anche il concetto di libro che, con l’invenzione della stampa, è diventato un oggetto di più ampia diffusione e meno estraneo anche ai ceti meno abbienti. Quindi, cosa significa seguire il processo letterario e quali punti di riferimento si possono trovare in un mondo così complesso? Il mondo editoriale, infatti, comprende “libri d’ore”, ovvero Bibbie tascabili e miniate, ma anche la Bibbia di Johannes Gutenberg, stampata a Magonza nella seconda metà del Quattrocento, fino alla letteratura di massa che ha seguito l’ancien régime. Punto saldo di questi cambiamenti è il fatto che la letteratura è fortemente legata al potere costituito. Col Novecento è subentrato il fenomeno della “società di massa”, che si è accompagnata alla scolarizzazione diffusa e all’alfabetizzazione. Per la prima volta nella storia dell’umanità, tutti – almeno in Occidente – sanno leggere e scrivere. E quindi, anche la lettura diventa un mezzo di massa. Non è un caso che in questo contesto sia emersa quella che Spinazzola ha definito l’«egemonia del romanzo»[1], che corrisponde a quella della società borghese. Precedentemente, il predominio dell’oralità nella trasmissione dei testi faceva in modo che la poesia, essendo per sua struttura facile da mandare a memoria, fosse il genere più diffuso anche tra le classi subalterne. C’è un aneddoto del Foscolo che racconta di alcuni galeotti che una sera, a Livorno, rincasando, recitavano dei versi della Gerusalemme liberata. La poesia, quindi, non era affatto elitaria, anzi, era estremamente popolare e anzi promossa dal ceto aristocratico, poiché spesso veicolava un messaggio che ne legittimava il potere.
Il romanzo, invece, racconta il mondo della borghesia ed è stato reso facilmente fruibile grazie alla stampa; per cui, con l’avvento della società borghese, si è avuta la predominanza di esso quale suo genere d’elezione. A quest’ascesa corrisponde la nascita delle moderne case editrici, tra XVIII e XIX secolo. Queste hanno cambiato radicalmente il rapporto tra scrittore e pubblico, perché hanno creato un tramite imprescindibile per avere il riconoscimento del valore di un’opera; la casa editrice inizia a rappresentare la voce dell’egemonia culturale.
Questo passaggio ha creato il mercato e il pubblico della letteratura, due fattori che si equivalgono e corrispondono. Essendo un’impresa, la casa editrice cerca prodotti «che accorpano le esigenze di pubblici diversi, con un effetto di omogeneizzazione tale da aprire un allargamento di mercato»[2], ossia cerca di creare i cosiddetti best sellers. Ciò avviene spesso a discapito della qualità. Basti pensare, per esempio, alla Rowling, il cui Harry Potter non avrà un valore letterario eccelso, ma monetario sì (e tuttavia moltissime case editrici l’avevano in un primo momento rifiutato).
Un esempio di romanzo che ha subito una trafila estremamente laboriosa è L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza[3]. Già ho scritto di questa autrice, ma la riprendo in questo numero perché risponde a una domanda fondamentale: che cosa significa il valore letterario?
Un autore, in questo contesto sociale, è spesso portato a seguire le esigenze di una lettura fruibile, seguendo le indicazioni delle varie case editrici, che devono, come tutte le imprese, far quadrare i conti. Fatto salvo che il libro è un prodotto che si presta a una lettura soggettiva, e quindi che anche testi di dubbio valore critico possono costituire «i libri di una vita»[4], rimane che spesso le case editrici non colgono il valore di un testo, perché ostacolate dall’esigenza economica. Sapienza, infatti, dovette subire numerosi rifiuti prima di vedersi pubblicata nel ‘94 solo la prima parte de L’arte della gioia, per i tipi di Stampa Alternativa.
Si ridusse in povertà perché ci teneva a completare quel libro, che iniziò nel 1967 e su cui continuò a lavorare fino alla morte. Finì addirittura in prigione per un furto[5]. Questo è un esempio di dedizione assoluta nei confronti della scrittura e il risultato è quello che ritengo uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana del Novecento. Mi sbilancio perché nelle pagine di questo romanzo emerge con forza tutto il coacervo di sofferenza e passione che hanno fatto inseguire all’autrice un’idea di arte letteraria e di vita che hanno scompaginato il romanzo tradizionale realista. In un periodo di alta mediocrità letteraria era ovvio che un testo così complesso, ricco di contraddizioni, di confronti con gli echi dei grandi romanzi ottocenteschi, suscitasse un rifiuto nelle varie case editrici. Da una parte l’esigenza economica, dall’altra quella letteraria: fino a che punto bisogna scendere a un compromesso tra questi due poli?
Personalmente, credo che il principio letterario vada posto come assillo per chi sa scrivere e vuole trasmettere un messaggio di importanza capitale, perché il narrare cela in sé una responsabilità gigantesca, quella di chi con le sue righe può dettare anche costumi ed esigenze sociali. Sono i libri che fanno la memoria dell’uomo. Non da ultimo, la letteratura supplisce a un’esigenza radicata nell’uomo, quella di stupirsi.
Nel romanzo, Nina, un’anarchica conosciuta in prigione da Modesta, la protagonista, racconta di come suo padre la portasse all’opera per insegnarle la fantasia, l’unica arma contro il fanatismo e l’intolleranza. Già questo passaggio inquadra un romanzo che si rivela molto vicino all’epos, non nel senso di una narrazione grandiosa, bensì in quanto fondatore di un’idea di civiltà: Modesta si deve scontrare con molti drammi, preconcetti, maschilismi e in questo scontro riesce a ridefinire nel suo ritaglio di realtà un’idea di mondo alternativa. Questo libro è il confronto più riuscito nella narrativa italiana con testi del calibro dei Buddenbrook e Cent’anni di solitudine. In esso trova sviluppo l’epopea che ha portato alla nostra attualità, il passaggio da una società aristocratica a una borghese, fornendone però una concezione alternativa.
Modesta insegue un’idea di libertà, che confina strettamente con la scrittura, in quanto in essa trova la sua liberazione. Così l’autrice, Goliarda, ha raccolto in questo grande romanzo un’idea di mondo; non ha inseguito un pubblico, ma un’ideale umano, e credo che questo conseguimento sia proprio di buona parte della grande letteratura: parlare non a una massa indistinta, ma a un pubblico che attraversa ogni epoca. Purtroppo, l’egemonia culturale spesso rifiuta questa visionarietà: è preferibile la mediocrità che va a colpire la maggioranza di quel 42% di italiani che leggono almeno un libro in un anno[6].
Nel 1979 Goliarda Sapienza scrisse così a Pautasso, allora direttore editoriale della Rizzoli:
[…] lei mi disse al telefono […] e poi a voce, che nel mio romanzo i temi non sortivano fuori. Questa affermazione rivela che chi ha letto il romanzo è, come disse Cooper, o un semianalfabeta politico o qualcuno che non accettando le idee che lo serpeggiano le ha rimosse all’istante, oppure, ancora, che la Rizzoli non è diventata ormai che una delle tante succursali della ben nota “Famiglia Cristiana” […]. Comunque lei non ha letto una sola riga del manoscritto, e la posso capire: ho visto quale inferno è il suo ufficio-galera a Milano… Si legga la mia Modesta quando potrà. Forse prenderà la forza di non essere più il forzato del suo lavoro, o del suo talento o del suo dovere[7].
Questo stralcio serve a esemplificare come la letteratura sia una forza dirompente rispetto al contesto sociale in cui si manifesta. In questo inseguimento, alla lunga, il genio ha la meglio sui dubbi dell’editore. Tant’è che oggi Goliarda Sapienza è un’autrice molto stimata, letta, soprattutto all’estero, dove ha acquisito una fama tale da imporre la pubblicazione integrale postuma di questo romanzo in Italia. Questo è uno dei migliori esempi di come nasca la letteratura di valore: s’ha da soffrire, ma ne vale la pena.
Note
[1] V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, Unicopli, Milano 2010.
[2] V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, cit., p. 43.
[3] G. Sapienza, L’arte della gioia, Stampa Alternativa, Viterbo 1998; Einaudi, Torino 2008.
[4] V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, cit., p. 31.
[5] L’autrice narrò la sua carcerazione ne L’università di Rebibbia, Rizzoli, Milano 1983; Einaudi, Torino 2012.
[6] Dati Istat.
[7] Citato in Domenico Scarpa, Senza alterare niente, postfazione a L’arte della gioia, cit., p. 529.