Il seguire si trasforma nell’Esaurimento, immagine spettrale dell’abisso che fagocita ogni serenità. Con un percorso nel messianismo tra cristianesimo ed ebraismo, la rubrica di Religioni propone di esplorare il nesso tra Dio, l’uomo e l’abisso come punto terminale del movimento del seguire.
Un turbinio agita le acque del lago; la folgore si è infranta contro la placida superficie e ha impresso il proprio marchio celeste nel centro dello specchio lacustre. Questa, a dir dell’I Ching, è la figura del Seguire, la situazione dove all’interno dell’imperturbabile serenità si cela la traccia dell’azione celeste. Sembra quasi di sentire echeggiare in questo tuono l’ordine divino pronunciato in Genesi 1.6: «Sia una distesa in mezzo alle acque», con cui Dio separa le acque primordiali in inferiori e superiori, imponendo con gesto di legislatore l’ordine alla riottosa massa delle acque. Non sorprende, dunque, la sentenza oracolare sulla prima linea che, con la sua forza, rappresenta il sigillo stesso che confina le acque, l’azione del tuono che ordina le acque in lago: «La norma cambia». Il cambiamento della norma allude al passaggio dallo stato caotico del «caos e informità» (Genesi 1.2) al kosmos, per mezzo dell’ingiunzione di una parola che fissi un limite (teḥum) al disordine dell’abisso (tehom). Così viene descritta quest’azione limitante della parola divina in Giobbe 38.10: «Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”».
Ma cosa succede se spezziamo questa prima linea forte che rappresenta il limite imposto all’abisso (teḥum al tehom), se infrangiamo la norma e lasciamo libere le acque come all’origine dei tempi? Ecco che il lago scompare risucchiato dall’abisso spalancatosi dove prima risiedeva la traccia dell’azione celeste, e l’Esaurimento[1] che ne consegue fa sì che «si finisca in una valle buia», altra assonanza biblica che sembra ammiccare al Salmo 23, e all’ombra di morte (ṣelmawet, grossolanamente tradotto con «valle oscura»), contro cui Davide serenamente invoca l’aiuto del Signore. Proprio come Davide, così anche l’oracolo non perde la speranza davanti all’Esauri-mento delle forze rappresentato dall’esagramma di sviluppo, e infatti sentenzia: «Riuscita. Perseveranza. Nessuna macchia». Come mai? Chi può mantenere la testa alta e il cuore fermo avanti all’irrompere dell’oppressione stessa?
«Il nobile mette in gioco la propria vita quando segue la propria volontà». Non ci si può dire sorpresi! La tradizione giudaico-cristiana sicuramente propenderebbe per identificare questo nobile con il messia, figura che è tradizionalmente associata a una discesa nell’abisso, quasi a seguire il creatore nel gesto primordiale di sigillare la voragine ctonia. Due personaggi vengono in mente pensando a una tale discesa: Gesù Cristo e Šabbetay Ṣevi. Se il primo non necessita di introduzioni, del secondo occorre dire che fu la figura messianica più influente della storia del popolo ebraico, venendo proclamato messia nel 1665 e suscitando un’enorme ondata di devozione mistica nella Diaspora, prima di compiere apostasia e convertirsi all’Islam sotto minaccia delle autorità turche. Per entrambi i messia, la discesa è associata all’idea di Esaurimento, ossia di “svuotamento” dell’abisso.
Partiamo da Šabbetay Ṣevi. In un opuscolo dal suggestivo titolo Il trattato sui draghi, Natan di Gaza (profeta del messia, nonché principale teorico del movimento sabbatiano) si propone di rielaborare le tradizionali teorie cabalistiche enfatizzando l’importanza del messia e, nel fare ciò, di giustificare gli scandalosi comportamenti pubblici di Šabbetay (dal punto di vista della moderna psicologia, Šabbetay soffriva di una grave forma di disturbo bipolare). La teoria non è meno scandalosa degli “atti antinomici” che il messia era solito compiere nei momenti di mania; contrariamente alle dottrine classiche, che pensavano l’anima del messia come proveniente dallo strato più alto dell’emanazione, Natan ribalta l’immagine: «Sappi che l’anima del re messianico esiste nel golem inferiore [nell’informe parte inferiore della struttura cosmica]. Poiché come il serpente primordiale [il Leviatano] venne in essere nel teḥiru [sinonimo di golem inferiore], così anche l’anima del re messianico fu creata e dimora nel grande abisso»[2]. Una teoria così estrema non deve sorprendere: situando l’anima di Šabbetay al centro dell’abisso Natan contemporaneamente giustifica i momenti maniaco-depressivi (interpretati come momenti di rapimento mistico dove il messia torna a combattere contro i demoni) e conferisce un’importanza inaudita alla figura messianica. Nella sua teoria, il messia diviene il limite stesso che racchiude l’abisso, la «porta e chiavistello» che Dio impose all’abisso in Giobbe 38.10: la sua anima deve partecipare alla radice del male perché solo in virtù di questa consustanzialità egli può redimere l’abisso ed esaurire il residuo (rešimu) della luce della creazione in esso intrappolato. Nella costruzione teorica di Natan di Gaza, così come nell’I Ching, l’Esaurimento appare come la condizione necessaria per la “riuscita” della discesa negli inferi, l’unico modo per sopravvivere all’angoscia terribile dell’«ombra di morte» (ṣelmawet) che Šabbetay Ṣevi conosceva da vicino.
Una simile tradizione interessa anche la figura di Cristo, come ci ricorda Dante nel Canto IV dell’Inferno (vv. 52-57): «Rispose: “Io era nuovo in questo stato, / quando ci vidi venire un possente, / con segno di vittoria coronato. / Trasseci l’ombra del primo parente, / d’Abèl suo figlio e quella di Noè, di Möisè legista e ubidiente”». Questa tradizione, che non compare in alcuno dei vangeli canonici, sembra quasi una reduplicazione della morte in croce: se la morte costituisce il momento in cui Cristo salva l’umanità rimettendone i peccati, la discesa negli inferi rappresenta la redenzione di color che son già morti. Ma la reduplicazione agisce più in profondità, e insieme alla redenzione duplica anche l’elemento simbolico della morte in croce: il portato più scandaloso della religione cristiana – la morte di Dio – trova così il suo doppione nella visita abissale di Cristo, dove Dio stesso, in quanto uomo, si confronta con il baratro del non essere, della sua stessa nullità. Una simile immagine doveva agitarsi nella testa di Meister Eckhart – grande mistico e filosofo renano del XIV secolo – quando scrisse: «“Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il niente”. Egli vide il niente, e quello era Dio. Dio è un niente […]. Quando l’anima arriva nell’Uno, e vi entra con un puro annientamento di sé, là esso trova Dio come un niente»[3]. Per Eckhart, la strada che conduce all’elevazione spirituale passa per il distacco e l’abbandono: abbandono dell’io, certamente, ma anche abbandono dell’essere e di Dio, e di Dio in quanto essere sostanziale, per giungere all’abisso che trascende persino la Trinità, quel nulla chiamato “fondo” (Grund) della divinità. Questo processo, l’annichilimento di sé per andare oltre a Dio fino a unirsi nel silenzioso nulla dell’origine, Eckhart lo chiama «generarsi del Figlio nell’anima», e rappresenta il processo tramite cui l’uomo diventa Cristo seguendo la sua morte e la sua discesa nelle profondità abissali. Così il grido disperato del Cristo sofferente in croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Mt. 27,46), il momento più sublime del dubbio incarnato in Dio che dubita di se stesso morendo in croce, si ribalta per Eckhart nella preghiera per abbandonare Dio, elevandosi sopra di Lui: «Prego Dio che mi privi di Dio»[4], «L’uomo retto non ha bisogno di Dio. Di ciò che ho, non ho bisogno»[5]. Il vero seguace di Cristo lo segue non solo attraverso l’esperienza estatica della morte, ma fin nel vuoto abissale dell’abbandono di ogni certezza verso l’infondatezza di ogni fondamento.
Note
[1] “Esaurimento” è una diversa traduzione dell’esagramma di sviluppo Kkunn, reso nell’Introduzione con “Assillo”.
[2] Natan di Gaza, Deruš raza de-malka meših . a, in G. Scholem, Šabbetay Z . evi. Il messia mistico, Einaudi, Torino 2001, p. 302.
[3] Meister Eckhart, Sermone: Donna viene l’ora, in Reiner Schürmann, Maestro Eckhart o la gioia errante, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 149.
[4] Meister Eckhart, Sermone: Beati pauperes spiritu, in Id., Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985, p. 133.
[5] Meister Eckhart, Sermone: Gott hat die Armen, in Id., Sermoni tedeschi, cit., p. 162.