Vi proponiamo un’intervista con una vera celebrità del panorama editoriale italiano ed estero, una personalità che conferisce lustro al nostro Paese: Pierfranco Bruni, candidato al Nobel per la Letteratura.
Per me è un vero onore poterla intervistare, Professore. Lei è vicepresidente del Sindacato Libero Scrittori Italiani, è un giornalista, poeta, biografo, direttore archeologo, coordinatore del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e, recentemente, è stato candidato al Nobel per la letteratura per la copiosa produzione e le numerose traduzioni dei suoi lavori all’estero. Infatti lei è, senza dubbio, tra gli scrittori italiani maggiormente tradotti nei Paesi esteri. Come ha accolto la candidatura al Nobel? Se l’aspettava, oppure è stata una splendida sorpresa?
È stata una splendida sorpresa, anche perché solitamente si fa una cernita tra gli autori italiani coinvolgendoli direttamente nella fase iniziale. Io non sono stato coinvolto inizialmente, di conseguenza è stata una vera e propria sorpresa e questo mi ha dato la possibilità di capire anche alcune articolazioni all’interno del premio Nobel che mi hanno permesso di penetrare in realtà che sembrano strumentali da un punto di vista letterario, ma che poi contano all’interno dei processi culturali europeo-internazionali.
Lei ha pubblicato diversi libri di poesie, tra i quali: Via Carmelitani, Viaggioisola, Per non amarti più, Fuoco di lune, Ulisse è ripartito, Ti amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio, e numerosi racconti e romanzi tra i quali non possiamo non ricordare L’ultima notte di un magistrato, Paese del vento, Claretta e Ben, L’ultima primavera, E dopo vennero i sogni, Quando fioriscono i rovi, Il mare e la conchiglia. Gli aspetti peculiari che contraddistinguono i suoi scritti sono la memoria e la nostalgia. Ci vuole parlare di questo?
I temi della “memoria” e della “nostalgia” hanno caratterizzato il mio percorso poetico, letterario e anche saggistico. Già nel mio primo libro, che risale al ’74, sono presenti quei ritagli che si sono consumati all’interno di un percorso in cui la memoria diventa fondamentale, infatti quel primo libro si intitola Ritagli di tempo. Questo concetto del tempo e della memoria ha da sempre rappresentato un punto nodale, un nodo che ha accompagnato la mia vita e che ancora non si è sciolto. Ritengo che all’interno della memoria si concentrino tutte quelle caratteristiche, quelle forme che sono letterarie ma che hanno anche una valenza profondamente esistenziale, poiché il tempo giocato all’interno del linguaggio, della parola, della comunicazione per uno scrittore diventa un modello per confrontarsi con quella realtà che è la realtà dei linguaggi sommersi: attraverso la parola si cerca di recuperare ciò che non si ha più e facendo questo si recupera anche parte di se stessi. Per durare nel tempo, i ricordi devono avere la dimensione temporale che diventa memoria. Ho cercato di far rientrare questo concetto in un tema centrale, che è quello del “viaggio”. Il tema del viaggio che è viaggiare, il viaggio che conosce la partenza e il ritorno. A questi toni si lega e si annoda il tema della nostalgia che non è rimpianto e neppure rimorso, bensì capacità di recuperare questo nostro concetto tipicamente mediterraneo e di scavare all’interno del tempo per trovare quella dimensione onirica che non c’è più e che diventa elemento centrale della mia letteratura.
Lei ha affermato che il mito rappresenta la chiave di lettura che permette di «sfogliare la margherita del tempo e della vita». Quindi mito inteso come chiave di lettura per interpretare il passato. Un bellissimo concetto del quale desidererei ci parlasse.
Da qualsiasi angolo si possa prendere, il tempo alla fine sfugge perché noi siamo tempo in termini agostiniani, ma questo tempo quando noi non ci siamo più fisicamente continua ad esistere nonostante la nostra assenza. Per resistere all’urto della realtà, della cronaca, il tempo deve incontrare il “mito”. Il mito dura, il mito trasporta il tempo in quel concetto forte che è la Storia come dimensione esistenziale dei popoli e delle civiltà. In altre parole, questo concetto di tempo resta tale se si vive in termini antropologici. Il mito dura nel tempo e attraverso la memoria. Le civiltà resistono perché sono diventate mito. Oggi si tende a mitizzare tutto. Il mitizzare, però, è qualcosa di diverso dal concetto di mito. Il mito è qualcosa di estetico, di sublime che diventa metafisica.
Anche il simbolo riveste un ruolo di primo piano nei suoi lavori letterari. Per i simbolisti francesi il poeta deve riempire ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi trasformandolo appunto in simbolo. Che cosa rappresenta per lei il simbolo in letteratura?
Uno scrittore, esattamente come qualsiasi uomo, percepisce il tutto attraverso i simboli. Il simbolo ci fa comprendere senza dover esplicitare espressamente il nome dell’oggetto, poiché è parte integrante della visione onirica della vita, che è visione onirica dell’incontro tra popoli, civiltà e identità. Attraverso i simboli possiamo ricordare, ad esempio, la storiografia, la forma archetipica dei modelli archeologici, le forme antropologiche.
Lei ha scritto anche saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e si considera profondamente mediterraneo. È anche autore di un libro su Fabrizio De André, Il cantico del sognatore mediterraneo, giunto ormai alla sua terza edizione, nel quale viene analizzato il rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema, questo, che rappresenta un modello di ricerca sul quale sta lavorando già da parecchi anni, non è così?
Esatto, il rapporto tra poesia e musica, ovvero tra linguaggio musicale e linguaggio poetico, è stato oggetto dei miei studi per molti anni. A partire dalla metà degli anni Sessanta, da quando si è affermata una finta neoavanguardia (Gruppo ’63) che ha conosciuto la sua crisi con Sanguineti e Pasolini, si è verificata la morte della poesia intesa come innovazione e tradizione. Alcuni cantautori, tra cui Fabrizio De Andrè, ne hanno risollevato le sorti. Secondo De Andrè era la musica che doveva adattarsi al testo, diversamente da altri cantautori che creano prima la musica e poi vi adattano le parole. Cantautori come Paolo Conte, ad esempio, hanno lavorato moltissimo sulla parola creando prima il testo e poi l’armonia musicale. Si tratta di cantautori che conoscono benissimo la letteratura. Lo stesso De Andrè era un grande appassionato di letteratura francese, e questa conoscenza faceva sì che il rapporto tra canzone e poesia fosse molto forte. Di certo questi cantautori hanno contribuito a “risollevare” il linguaggio musicale, il linguaggio poetico permettendo alla letteratura di poter trarre vantaggio da questi rapporti. Vi è stato spesso un conflitto tra poesia e musica. Io credo che la letteratura degli anni ’60 abbia dato molto a questi cantautori.
Il suo saggio-racconto dal titolo Mediterraneo. Percorsi di civiltà nella Letteratura contemporanea rappresenta in maniera emblematica il suo pensiero. Lei ritiene che la letteratura e la vita senza il sogno, l’amore e l’ironia non avrebbero senso e che in un viaggio gli arrivi rappresentano sempre dei nuovi punti di partenza. Come diceva Proust: «Non dobbiamo aver paura di andare oltre, perché la verità è ancora oltre», non lo crede anche lei?
Trovo giustissima questa affermazione che ho sottoscritto spesso anche nei miei testi letterari. Sono del parere che non bisogna mai avere paura di nulla, che bisogna sempre andare oltre il “non limite”, poiché andare oltre significa comprendere e condividere quel forte concetto che Dante ha definito con “l’andare oltre le colonne d’Ercole”, e tutto ciò significa comprendere il senso del sogno che c’è in ogni parola. Ritengo che tutto questo debba avere come punto nevralgico il concetto di viaggio, il concetto di ritorno, il concetto di viaggiare viaggiando, perché il viaggio ha sempre una partenza e un ritorno. Il concetto di “Mediterraneo” è aperto e contempla diverse realtà di “Mediterraneo” sia da un punto di vista metafisico che culturale. I vari “Mediterranei” che occupano lo scenario non sono solo quelli che stiamo vedendo in questi anni da un punto di vista conflittuale, ma sono quelli che ci appartengono come destino. Noi in Italia siamo Mediterraneo, dalla Liguria alla Calabria. Viene, quindi, esaminata la visione di un Mediterraneo che unisce e ciò comporta anche comprendere i diversi tipi di linguaggi da un punto di vita non solo letterario, ma anche umano.
Lei ha da poco pubblicato un libro Futurismo Renaissance scritto in collaborazione con lo scrittore futurista Roberto Guerra. Un libro estremamente interessante nel quale ci si interroga circa l’eventualità di una possibile rinascita delle avanguardie nell’era contemporanea, ma soprattutto un libro in cui si tendono ad analizzare gli aspetti più rappresentativi del futurismo contemporaneo. A questo punto mi interessava chiederle quali sono, a suo parere, le caratteristiche del futurismo contemporaneo e in che cosa si differenzia da quello storico?
Questa è una domanda complicata, ma molto bella. Ringrazio Roberto Guerra per avermi dato la possibilità di riflettere su questo rapporto in base al quale il concetto di “rinascimento” diventa punto nevralgico all’interno di un processo futurista. Il futurismo antica maniera ha rappresentato l’unica avanguardia nazionale che è riuscita a portare l’Italia letteraria nel mondo, e questo è vero perché il Manifesto di Marinetti, pubblicato su Le Figaro, forniva indicazioni precise in tutto il mondo su come dovesse essere la letteratura per rimanere nella storia, nel tempo e questo ha costituito un punto di grande vantaggio non soltanto per la cultura futurista e le avanguardie dell’epoca, ma soprattutto per l’Italia e per l’Europa intera. Molti paesi, tra cui la Russia, hanno attinto a questa forma marinettiana. A partire dal ’44 si ravvisano segni tangibili di una rivoluzione del linguaggio e anche della vita. Il futurismo ha saputo inserirsi all’interno di un processo culturale in quegli anni. Tutto ciò rientra in un percorso grazie al quale il futurismo è riuscito a resistere all’urto della storia e delle sperimentazioni. Riguardo alla differenza tra il futurismo marinettiano e quello di oggi, sono del parere che il futurismo marinettiano abbia recuperato la tradizione della letteratura che si basava sull’incontro tra il linguaggio occidentale e i linguaggi orientali e li abbia innovati. Marinetti parte, quindi, dal concetto di innovazione ma poi ritorna al concetto di tradizione per rinnovare quella tradizione che era la tradizione post-romantica. Il futurismo di oggi attua questo presupposto andando oltre, non soltanto attraverso le forme linguistiche, ma anche attraverso forme di contenuto, tematiche vere e proprie. Credo che il Futurismo di oggi abbia come consistenza la serenità di essere depositario di una tradizione, ma nello stesso tempo riesca ad innovarsi e a rinnovarsi sia attraverso la parola, i contenuti, sia tramite la pittura e il colore.
Recentemente ha dato alle stampe un bellissimo libro scritto a quattro mani con sua figlia Micol dal titolo Cinque fratelli. I Bruni-Gaudinieri nel vissuto di una nobiltà. È la storia della sua famiglia, una famiglia stemmata che ha segnato un percorso importante nella civiltà aristocratica e nobiliare dell’Italia meridionale tra fine Ottocento fino ai nostri giorni. Ce ne vuole parlare?
Si tratta di un libro che è costato grande fatica sia a me che a mia figlia Micol. È un libro che ripercorre la storia della mia famiglia a partire dal 1860 fino ai nostri giorni (i miei nonni paterni discendevano dai Gaudiniero, un’antica famiglia stemmata di origini francesi). All’interno di questo percorso si è compreso come questa famiglia francese sia giunta in Calabria in un paesino vicino la Sila, in cui ancora oggi è possibile ammirare il palazzo Gaudiniero, diventando ben presto punto di riferimento di tutto il territorio soprattutto da un punto di vista economico attraverso la costituzione delle prime forme di commercio e ponendo, con largo anticipo, le basi del rapporto tra economia e sviluppo. Alla fine del ‘600 la famiglia si allarga fino a congiungersi con il ramo dei Borboni e, in seguito, si imparenterà con i Bruni, noti possidenti terrieri. Questo rapporto perdurerà durante tutto il periodo fascista; in quel contesto il legame tra economia, politica e nobiltà costituisce un triangolo fondamentale per lo sviluppo del territorio. Il libro ripercorre questo viaggio giungendo alla mia generazione di sessantenni e sugella e sigilla il rapporto con la propria eredità culturale e storica. A mio avviso, era necessario che questo libro contenesse in sé tutto questo percorso dal XVII secolo al Regno di Napoli, al Regno delle due Sicilie fino a tutto il Novecento. Un percorso ancora incompiuto che va ricontestualizzato e riletto anche alla luce delle nuove forme storiografiche.
Un libro scritto, quindi, insieme a sua figlia Micol la quale manifesta una tendenza più prettamente storiografica rispetto a lei che, invece, sembra prediligere maggiormente i sentimenti quali la nostalgia e la malinconia, in un atteggiamento emotivo che ricorda molto la saudade brasiliana, questo stato emozionale caratterizzato da un sentimento malinconico che nasce dal ricordo nostalgico di un momento speciale vissuto e dal desiderio struggente di riviverlo, il tutto connotato dalla speranza nel futuro. Quali sono gli aspetti, riguardo la storia della sua famiglia, che le suscitano questo sentimento?
Questo libro ha avuto inizio con la morte di mio padre a seguito della quale sono sorti alcuni “indizi” che mi hanno permesso di scavare all’interno di questa famiglia. Mia madre mi ha aiutato moltissimo in questo ricordando, in forma leggendaria, alcuni racconti che in seguito avrebbero dovuto essere verificati attraverso le fonti, la storiografia. La ricerca storiografica è stata affidata a mia figlia Micol, la quale possiede molta più dimestichezza di me. Una ricerca in cui l’input è stato dato dalla nostalgia, dalla malinconia, dall’affetto, dal sentimento, dall’amore ma che doveva essere verificata attraverso le fonti. La verifica delle fonti ha avuto modo di confermare l’elemento sentimentale. Il libro è iniziato con la morte di mio padre ed è terminato con la scomparsa di mia madre. A questo libro sono, quindi, legate due vicende molto tristi della mia vita che mi hanno dato modo di comprendere alcuni aspetti non soltanto da un punto di vista sentimentale, umano, ma anche dal punto di vista della riflessione: come la Storia può avere un senso, come può diventare destino, come la storia della propria famiglia ciascuno di noi se la porta nella propria coscienza. Io ho scritto tanti libri ma questo è stato, senza dubbio, quello che mi ha causato più sofferenza, più dolore; ma quel dolore, quella sofferenza oggi mi lasciano molto sereno. La serenità che oggi ritrovo in questo libro è la stessa serenità che mi hanno donato mia madre e mio padre permettendomi di conoscere la storia dei miei eredi e del mio destino.
La ringraziamo molto, Professor Bruni, per averci illuminato e condotto in un mondo estremamente poetico parlandoci dei suoi libri che vanno a toccare le corde più intime della nostra anima e anche per averci fatto viaggiare indietro nel tempo raccontandoci le vicende storiche e sentimentali della sua illustre famiglia. La storia è la guida della nostra vita, mentre i sentimenti ne costituiscono l’essenza. Grazie ancora per averci donato tutto questo.