Simone Weil e la ritirata dal collettivo

di Marco Barbieri

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Simone Weil 1921

La problematica tensione fra il singolo e i molti rivista attraverso l’originale punto di vista della filosofa francese

Un’attenzione pratica e teorica sulle dinamiche reali dell’individuo e della società così generosa come quella di Simone Weil offre al lettore numerosi spunti di riflessione. E lascia forse intravedere – tratto d’altronde tipico dei grandi pensatori – l’ombra di una contraddizione da risolvere. A questo proposito, particolarmente interessante è la prospettiva relativa al rapporto tra individuo e collettività offerta dalla filosofa nel breve saggio La persona e il sacro, scritto poco prima della morte (1943).

La distinzione decisiva è quella tra persona e uomo, e subito emerge come sia solo il secondo a essere sacro; tale è l’uomo nella sua interezza, nel suo corpo come nei suoi pensieri e più precisamente sacro è proprio l’elemento impersonale dell’uomo: l’elemento del bene e della sua attesa (la quale non è nient’altro che la giustizia) che trascende la sfera della scienza e delle arti, verso un orizzonte dove risiedono la verità e la bellezza. Dopotutto raggiungere la perfezione comporta l’assenza di un elemento personale, proprio perché è la persona a compiere l’errore. Se un bambino compie un errore durante l’esecuzione di un’addizione, ecco che emerge la sua presenza; se l’esecuzione è corretta, non resta che la perfezione del calcolo. Come raggiungere lo stato di impersonalità risulta dunque essere la questione fondamentale.

Ammonisce l’autrice, «la parte dell’anima che dice “noi” è infinitamente più pericolosa»[1]: il vero problema sta nell’io che tende a seguire la collettività. Si può passare dal personale all’impersonale, non direttamente dal collettivo all’impersonale: a tale scopo la collettività deve prima dissolversi in persone separate. Altrimenti – ed è un fenomeno che secondo l’autrice riguarda ogni epoca, ma il pensiero non può che rivolgersi ai nazionalismi – la collettività acquisisce il carattere del sacro, in una forma di perversa idolatria. Per quanto essa sia notevolmente più forte del singolo, il discorso della Weil non è privo di speranza: dopotutto, la collettività stessa dipende da operazioni compiute da singoli soggetti. Ciò lascia intravedere «la possibilità di una presa dell’impersonale sul collettivo»[2], con l’individuo che può finalmente scoprire una responsabilità morale nei confronti del suo prossimo: la protezione non della sua persona, ma a sua volta della possibilità che questa passi nell’impersonale. Per favorire un tale processo e contrastare la naturale tendenza della persona a precipitarsi nel collettivo, Simone Weil parla, in termini a dire il vero piuttosto vaghi, di spazio, tempo libero, attenzione, solitudine, silenzio e calore, mentre in precedenza aveva accennato alla necessità di fornire mezzi per l’espressione e a un adeguato sistema di istituzioni.

Nella più fondamentale delle contrapposizioni, quella tra bene soprannaturale e male, la vera arma da affidare alle mani degli sventurati non è però la parola che proviene dalla terra, bensì quella che origina nel cielo. Il grido che riecheggia costante nella riflessione di Simone Weil, «Perché mi viene fatto del male?»[3], che pone problemi di giustizia e non di diritto, è compatibile con l’azione benevola di Dio attraverso il dualismo tra l’opera divina, che si rivolge alla parte eterna dell’anima, e il resto che «è abbandonato ai voleri degli uomini»[4]: la conseguenza è che all’individuo spetta un ruolo tutt’altro che passivo, quello di vigilare che non sia fatto del male. D’altra parte il male ricevuto suscita il desiderio del bene, e può provocare l’espressione della parte più pura dell’anima, quella impersonale.

Per quanto interessante sia il ricorso alla metafisica da parte dell’autrice – nonché non esente da potenziali critiche – vale la pena soffermarsi ancora sulla dicotomia tra la collettività e il singolo. La domanda sorge spontanea: non è contraddittorio che colei che parla di ritirata sia la stessa donna che ha speso la propria esistenza immersa nell’impegno sociale più duro, volontariamente gettatasi negli inferni delle fabbriche condividendo la stessa alienata esperienza del proletariato operaio francese? Certo, è una possibile interpretazione. Ma forse suona più convincente distinguere fra due “ritirate” ben distinte: quella effettiva dal mondo fisico e quella meno evidente che si verifica su un piano intellettuale e morale. Mentre la prima, a meno di eventualità straordinarie, resta sempre potenziale e non si compie mai, sembra invece vitale che l’intelletto fuoriesca alle volte dalle maglie della ripetizione quotidiana per elevarsi a lidi più accoglienti, orizzonti di rielaborazione del pensiero e di produzione di idee. Ecco allora spiegata la massima responsabilità di ogni uomo: quella di garantire che a nessun individuo sia negata la fuga morale. E in questo modo la contraddizione accennata in apertura è superata: vivere nel mondo non è solo una scelta consentita ma addirittura un dovere ribadito e rafforzato, e l’approdo all’impersonale non esclude affatto il costante contatto con l’altro.

Note

[1] Simone Weil, La persona e il sacro, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2012, p. 19.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Ivi, p. 47.
[4] Ivi, p. 48.

Autore

  • Studente di Cinema presso la Civica di Milano dopo la laurea in Storia, è anche appassionato di filosofia e religione, aggiornato sulle ultime novità musicali e, ultimo ma non per importanza, pessimo giocatore di tennis.

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