di Federico Filippo Fagotto
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Grazie ai trabocchetti della Air India, il viaggio di ritorno – con cancellazioni e abbondanti ritardi sul menù – è sembrato davvero una ritirata. Forse un sussurro delle regie celesti per invogliare il viaggiatore a rimanere fra i seni dello Himalaya e non tornare mai più? Chissà. Purtroppo questo viaggiatore appartiene pur sempre alla brutta casta dei “turisti”, di quelli che (sfotte Kipling): «Dopo circa un mese di totale libertà, la mente non ne può più e ritorna sulle strade vecchie e sicure, quelle che noi in India non abbiamo tempo di percorrere». Eppure, il rimpatrio era stato già predetto dall’I Ching, vindice per non essere stato ficcato nello zaino, il quale ha estratto il tema de La ritirata, cioè l’esagramma numero 33, come gli anni di qualcuno di nostra conoscenza, ma anche di Alessandro il Grande (non mi riferisco al grafico della rivista), quando morì poco dopo la tragica ritirata proprio dalle terre indiane.
Hai voglia a dire, come tenta l’I Ching, che «la ritirata non è da confondersi con la fuga» e che «ritirarsi è indizio di forza». È solo il Jolly che gli imperatori cinesi probabilmente sfruttavano all’indomani di una grave disfatta militare, contro un nemico troppo forte. Anche qui, infatti, l’esagramma di sviluppo è La preponderanza del grande, il numero 28. Ma se nemmeno il più Grande di tutti, Alessandro appunto, l’ha spuntata, sarà perché oltre alla forza occorre l’ingegno. I mongoli, ad esempio, la fecero in barba proprio ai cinesi con la tecnica della “falsa ritirata”, fingendo cioè di trovarsi male in arnese e di darsi alla fuga. Una volta attirato il nemico lontano da mamma muraglia: zàcchete!… frittata. E allora si usò l’I Ching a tutta randa per raggirare i sudditi sul motivo per cui i soldati del Celeste Impero se l’erano fatta fare sotto il naso. Ci penseranno poi i giapponesi a rendere ai tartari pan per sushi, e senza nemmeno volerlo! Quando nel 1274 le truppe di Kublai Kahn sbarcarono al porto di Hakata, pronte a far sconquassi, interpretarono la ritirata nipponica come il preambolo di un contrattacco, sopravvalutarono le forze nemiche e optarono, udite udite, per ritirarsi anche loro!… riprese le navi, salparono con l’idea di tornare insieme ai rinforzi, ma il sacro vento divino (kamikaze) spirò bufera ai loro danni e: ari-zàcchete!…
Gli spagnoli dell’Armada Invencible fanno mille condoglianze.
Ai giapponesi il giochetto garbò al punto da riprovarci nel 1939, durante la campagna di Nomonhan, proprio contro l’esercito russo-mongolo. Bastò ai loro carri armati qualche giravolta per indurre il nemico a sospettare chissà che, fino a farlo ritirare sulla riva occidentale del Kalkhin-Gol. Per i sovietici la scelta fu fatale: un auto-Gol imparabile! E se il vecchio Lenin si era da poco inventato l’aforisma: «Un passo avanti e due indietro», era da già alcuni secoli che i monaci Zen ripetevano: «Un passo indietro e due avanti», come a dire: per progredire, occorre prima abbandonare qualcosa, ossia ritirarsi.
Tuttavia, l’I Ching non sembra dare una mano allo sforzo individuale, a tal riguardo. «In questa ritirata – aggiunge puntiglioso – non si tratta di arbitrio umano, ma di leggi degli accadimenti naturali». Ohibò!, penserà qualche filosofo naturalista, ma se imponiamo alle leggi fisiche questo cammino all’indietro, rischiamo di invertire i rapporti causa-effetto! Si pensi che già la Māṇḍūkya Upaniṣad diceva: «La causa (kāraṇa) non è altro che l’effetto (kārya)», e di nuovo Eliade ha definito questo “ritorno del seme” come un «andare controcorrente» (ujāna sādhana). Tale distorsione delle care abitudini fenomeniche è tanto irritante quanto per la nostra tigre venire accarezzata contropelo. Ma se si vuole percorrere il tempo a ritroso – o, come dice Eliade, «contropelo (pratiloman)», appunto – la mossa sembra fin troppo banale: basta aggiungere il prefisso prati– (“a ritroso”) ai termini sanscriti di riferimento. Una bella lista della spesa la fornisce l’introduzione al testo sullo Yoga di Patañjali (pratibandhi, pratipakṣa, prati verdi e blu, ecc.), e anche all’interno dello stesso sūtra si parla del «ritorno [a ritroso] alla condizione d’origine (pratiprasava) dei costituenti (guṇa)», cioè i componenti ultimi della materia. Questo cammino à rebours aveva stranito perbenino un francese di tutto rispetto, Denis Diderot, che nella Lettera ai ciechi saccheggia da Locke il mito indiano sulle origini del cosmo. Alla domanda rivolta a un santone di turno: “Su cosa si regge il mondo?”, viene risposto: “Su un elefante”. Al puerile prosieguo: “E l’elefante, allora?”, gli si sentì ribattere: “Ma su una tartaruga, ovvio”… lo spettro del regressus ad infinitum era dietro l’angolo!
Se invece si lascia che la corrente dei fenomeni scorra docilmente dove le pare, anche all’inverso, perché no, come qualche poeta immaginava pensando alle acque del Danubio, si può guadagnare forse qualcosa: noci di cocco che ritornano sugli alberi, pronte per essere rimangiate (come pare accadesse al sommo Hādi Siddha), oppure, come capita solo a coloro che hanno compiuto sacrifici e atti meritori, «essi conseguono il mondo della Luna, e quegli stessi tornano nuovamente indietro», imboccando la cosiddetta via meridionale, la via degli antenati, la strada lunare. Poche storie: qui siamo di fronte a un moonwalk da far impallidire la luna più di quanto già non sia, e sbiancare ancor di più Michael Jackson.
Ben prima di lui, infatti, notiamo grandi performance di passo felpato in retromarcia, persino a casa del Buddha! Il fratello del grande muni, detto Nanda il Bello, proprio non riusciva a fare a meno di agi, mollezze e carezze: quelle in particolare della sua avvenente fanciulla. Quando però vide da vicino il profondo cambiamento occorso nel fratello, in seguito alla sua rivoluzione spirituale, sentì il richiamo della vita ascetica ma, allo stesso tempo, pur sempre il suadente impulso d’amore. Aśvaghosa ce lo dipinge così: «La mente presa dal desiderio di vedere il Saggio s’affrettava ad andare, e nel contempo, lanciando occhiate a ritroso», verso la sua piacente mogliettina. E quando finalmente l’amico Gautama prese parola, dacché tutti si aspettavano argomentazioni traboccanti nobiltà, se la cavò invece con un trucco da bar, del tipo: “Vuoi avere tua moglie, o meglio ancora le irresistibili Apsaras (spiriti femminei)? Allora fai un po’ di monachesimo e in cambio te le concederò”. E concluse il ricattaccio, soggiungendo: «Come un ariete infuriato indietreggia per caricare, così il tuo vivere la vita religiosa serve a praticarne il contrario»… mah!
Ha un bel dire, il curatore dell’opera, che in Nanda «l’esemplarità del Buddha appare percorsa a ritroso, in negativo», ma qui, davvero: chi è senza peccato scagli la prima pietra, e non all’indietro, per favore: l’ha già fatto Deucalione e ci basta! Anche gli esseri illuminati, divini e supremi, dunque, facciano tutti un passo indietro, grazie!… prima che La preponderanza del grande finisca per lasciarci secchi!
Per fortuna, gli indiani sono un po’ più furbi, talvolta, persino degli antichi greci. Semele volle a tutti i costi vedere Zeus in forma divina, e infine… ari-ari-zàcchete! Al contrario, quando nel Mahābhārata l’asceta Uttaka chiede a Kṛṣṇa di rivelarsi in tutto il suo divino splendore, se la fa subito sotto e si affretta a gridargli:
Ritirati!
Ritrai questa tua forma illimitata.
Voglio rivederti come prima.
Come dire: non lo faccio più, promesso!