di Lucy Durneen
traduzione di Greta V. Galimberti
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VITA E MORTE DI UNA STORIA.
Ti innamori di una voce, di un libro, di una barba, o della sua assenza. Tu, che non senti niente, che sei una desolata terra in un corpo di donna. Non puoi permettere alla tua faccia di mostrare niente di tutto questo, nemmeno quando lui si insinua nei tuoi sogni e dà loro fuoco, ma sì, un giorno svolterai a sinistra invece che a destra, pranzerai in un café invece che in un altro e cadrai nel cliché, come una pietra cade in acqua. Avete così tanto in comune! Siete accademici. Tenete lezioni che connettono le persone con il poeta che è in loro. Avete una comune affinità per l’uso della seconda persona singolare e la pasticceria. Dividiamo la torta, ti ritrovi a dire, che poi si traduce più o meno con «tu avrai il mio cuore per sempre». Lui non lo avrà, ovviamente… nessuno possiede il cuore di qualcuno così a lungo. Ma da quel momento in avanti tu ti muovi per la città come un’eco. Bizzarro come la selezione naturale non abbia fermato l’umanità dall’amare in quel modo, fatale, sconveniente, ma così va la vita.
Tu sei una romantica che ha ufficialmente rinunciato alle storie ma che continua a cercarne una nei posti più assurdi, allo stesso modo in cui non abbasseresti mai del tutto la guardia con un gatto che anni fa è scappato di casa. Ti era sempre sembrato ragionevole che un giorno esso si facesse un giretto, ti si strusciasse sulle gambe, lappasse il latte come se si sentisse a casa propria. Tutto ciò è una probabilità. Però, tu hai una casa a cui tornare, e un appartamento da pulire, dei compiti da correggere. Tutto ciò è un fatto.
UNO DI VOI DUE È SPOSATO.
La città d’inverno al tramonto, l’ora degli amanti peccatori. Ma voi due non siete amanti. Voi siete senza nome. Il vostro stare insieme non indulge in imprecazioni pericolose, sebbene voi le usiate casualmente nelle conversazioni, qualche volta, se non proprio riferendovi a voi stessi. Camminate nelle ombre della sera verso l’U-Bahn, muovendovi da una pozzanghera di luce lavanda all’altra, e tra le vostre mani e le vostre spalle c’è sempre quella distanza perfetta di dieci centimetri; i vostri pesanti cappotti non sfregano l’uno contro l’altro, perciò la neve fresca rimane intatta sulle fibre di lana, tremando ai vostri passi come fiori di gelsomino sull’acqua.
In una strada, del synthpop. Un Bach dopo l’altro. Sorpassate porte scrostate e poster pubblicitari di vecchi concerti d’opera. Vi impressionate nel notare le ombre dei cani, una collana di diamanti dietro una vetrina, il profumo erboso della cacca di cavallo sui sampietrini. Cataloghi tutto con cautela; sai cosa questo genere di simboli può provocare. La tua è una professione che esamina vite immaginarie di persone immaginarie; i loro cuori forse non sanguineranno per davvero, non si scioglieranno e non commetteranno nessuna delle altre atrocità che fanno quelli veri, ma tu sai che i “più o meno” non portano da nessuna parte. Hai scritto interi saggi sul desiderio manifesto. Quando insegni Addio alle armi hai quella sorta di sguardo feroce su voi due, mentre orchestri tutta quella inqualificabile tragedia in una danza eseguita con le tue stesse mani.
Quando parla di Maupassant noti con apprezzamento che anche lui è fluente nella lingua dei gesti spontanei, i suoi movimenti pazzamente drammatici a rivaleggiare con i tuoi. Se davvero l’universo manda dei segni, qui ce n’è uno. Le sue mani muovono l’aria come se stessero azionando un motore. È imperativo che un oceano di spazio si sollevi e ricada di nuovo tra voi, sempre, ma qualche volta quei gesti spontanei…
Dovreste fare una gara di gesti spontanei! Un Gesture-Off. Sarebbe molto più erotico di come suoni a dirlo. Qualcosa di lievemente minaccioso, come il valzer del Padrino, suonerebbe mentre vi muovete in circolo, più veloce, più veloce, mani alzate, occhi lampeggianti. A lui sta accadendo tutta la faccenda byroniana. È più attraente di Mercurio.
Quando chiede «Cos’è questa?» quello che tu non dici è affinità. Muovi le mani in quella pericolosa maniera che non significa né sì né no, né conoscenza né ignoranza. Lui rimarrà in città soltanto per un paio di settimane. La tua amica ebrea te lo direbbe, che a volte la dura realtà della vita è che questo è ciò che è. Lo Urban Dictionary ha un’altra definizione per questo.
Il treno si ferma ed entrambi raggiungete la porta, nello stesso momento.
LE COSE CHE VOGLIONO LE TIGRI.
Sulla terrazza di un bar vicino allo Zoologischer Garten discutete di barbe letterarie. Al momento, lui ne porta una alla Chekhov. Hemingway è fuori questione per il modo in cui il suo collo resiste alla crescita dei peli. È un vero peccato.
I versi degli animali nei loro mondi ricreati di giungle e banchi di ghiaccio, veldt e boscaglie si levano alti sopra gli alberi. Il lamento notturno delle tigri sembra vecchio di secoli. Lui ti dice che partirà domani. Tu citi Il paziente inglese perché è l’unica cosa che puoi fare.
«Dannazione», dice lui.
«Dannazione», ripeti.
Maledite qualsiasi cosa alla quale le vostre bocche possono arrivare. L’acido e distante tanfo della prigionia del lupo, il fottutissimo freddo. Il tempo e il modo in cui si muove. Le torte rosa brillante e piene di rum dai nomi ridicoli. Le persone che non leggono. Le persone che usano troppi avverbi. L’aver perso dieci giorni fa uno spettacolo di Offenbach allo Zitadelle Spandau. Lui ti manca, eppure è proprio di fronte a te.
Gli parli delle cose che ti hanno fatto più arrabbiare al mondo, le cose che non hai mai detto quasi a nessun altro. Poco lontano, le tigri urlano e tu realizzi che, persino quando ti senti più pazza, in quello che fai non c’è mai alcun pericolo.
«Fammi vedere i pugni», dice lui e tu li sollevi. Senti qualcosa di piccolo e tenace, uno spirito fiero che si forma dentro di te. Uno spirito combattivo. Il tuo respiro si ferma e vola violentemente nella notte come un jinn di fuoco blu.
Silenzio.
Da qualche parte nell’oscurità percepisci che una tigre passeggia e torna indietro, esplorando furtivamente la lunghezza della sua gabbia. Più terribile del ringhio è la sua subitanea assenza. I muscoli della tigre, fatti per essere agili al massimo nella loro forza, fradici nel caldo di Sumatra, tremano e si contraggono per il freddo mitteleuropeo. Puoi sentire la sua forza sprecata, la sua nostalgia della tagliente erba della giungla, il mito di casa che, nata in cattività, conosce solo nelle sue ossa, allo stesso modo in cui le anguille seguono cieche le correnti fino ad emergere nel Mar del Sargassi.
Il ruggito della tigre si libera come un uomo in corsa. È un suono che cerca qualcosa. Le pretese del cuore umano non sono diverse, pensi. Persino una tigre lo sente. Persino una tigre vuole più di ciò che già ha.
SE TU AVESSI LETTO MENO HEMINGWAY TUTTO QUESTO PROBABILMENTE NON SAREBBE SUCCESSO.
«Sei una modernista», mi dice, il che spiega tutto. Può esserci soltanto l’eccessivo consumo di Hemingway dietro tutta questa fame violenta, nel modo in cui solo l’amare non è abbastanza… devi anche essere infranto in piccoli pezzi e ricomposto con le orecchie attaccate alle guance, o una rosa dove prima c’era la tua bocca. Lui ti punzecchia col suo finto francese. Tu non sai come dirgli che certi giorni vuoi soltanto che una persona venga da te con un daiquiri, un po’ di prosa minimalista passivamente aggressiva e un grosso pesce che ha appena pescato con una rete di sua invenzione. Tutto ciò è difficile da ammettere, perché le donne hanno bruciato i loro reggiseni per assicurarsi che questo genere di cose non accadano. Forse questo fa di te una terribile femminista, o forse no.
A tua difesa, a un punto imprecisato di questa tua fantasia lo cucini per davvero, poi, quel pesce? Non lo metti su un piatto per imboccare tutti, baciare i loro piedi o succhiare loro il cazzo mentre crollano su una sedia e danzare lentamente per il loro piacere unilaterale. Vuoi soltanto che qualcuno ti desideri con frasi di cruda, straziante semplicità. Forse, infatti, sospetti che questo bisogno di dire e non dire allo stesso tempo sia qualcosa di più che lievemente postmoderno, ma ragazzi, lui ti darebbe del filo da torcere se tu aprissi quella scatola di vermi. Invece, vai con lui all’aeroporto. L’ululato dei Boeing in partenza ti ricorda quanto ami volare, quell’entusiasmo viscerale per l’aeroplano, come se si preparasse a decollare traducendosi dentro di te allo stesso tempo come non-sollevarti-da-terra e fammi-librare-in-aria. Desiderio manifesto, penserete. Chi di noi può conviverci? Qualcosa di grande e crescente spingeva profondamente in uno spazio piccolo come un cuore.
Al momento dei saluti lui dice «Quando avrò bisogno di una modernista, ti chiamerò. In falso francese».
Al momento dei saluti gli dici «Ne me quitte pas». Il tuo falso francese è in realtà così buono che lui non capisce. Si dirige verso l’imbarco, verso la sua vera vita. Al controllo sicurezza ti concede il gesto internazionalmente riconosciuto che indica l’amore non corrisposto… cioè a dire che lui non si volta a fissarti con quello sguardo che ti penetra il cuore, ma tira dritto, fermandosi soltanto per il controllo del sacchettino per cosmetici che le compagnie aeree ti fanno usare perché, se il ventunesimo secolo ci ha insegnato qualcosa, questo qualcosa è che è possibile, sempre possibile, che il mondo intero possa crollare in qualsiasi momento solo per le piccole semplici cose che nascondiamo in bella vista.
L’ESSENZA DELLA SOLITUDINE, DEL IN-DER-WELT-SEIN.
Il tuo appartamento in Rosenthaler Straße inspira la notte, gli odori stridenti di persone che non si appartengono. Al di là della strada c’è un café bordato di gerani rosso vivo e tavolini di metallo. Di sera i tavoli spariscono e la gente viene a ballare la milonga dove solo dieci anni fa le pattuglie militari sovietiche imponevano il coprifuoco e gli adolescenti si baciavano in trombe delle scale squallide e butterate di proiettili.
Lui ti chiama per parlarti di un libro che ha appena letto. In inglese. Questo significa che non ha ancora bisogno di te. Ti avvolgi il filo del telefono intorno al corpo come se fosse di soffice mussola. Vi scambiate aneddoti di lavoro. Parlate di torte di semi come se vi steste leccando i corpi a vicenda, poi vi salutate con lo stesso disagio di due stranieri che siano stati obbligati a condividere l’ascensore per una corsa troppo lunga.
Che cos’è questo?
Ti dirigi verso il bagno. Apri il rubinetto, trovi il tuo shampoo più segreto e costoso. Attraverso il vapore profumato di arancio tracci i percorsi che le sue dita non hanno mai preso sulla tua pelle, e il tuo corpo diventa un’aria musicale, crescente.
Quando tuo marito arriva a casa, più tardi, tu fingi di dormire. Sa di lievito e pioggia – non la pioggia lussureggiante delle valli, ma di quel tipo che colpisce concretamente e assorbe tutti gli odori meno gradevoli della città. Tu giaci immobile. La cura per tutto (siano le vertigini o una volpe fuori dalla tua tana) è giacere immobile come ci suggerisce l’istinto. L’immobilità è un modo di respingere tutto il movimento del mondo, quello della polvere, quello delle tende, persino quello delle fibre del tappeto che si piegano come erba sotto i suoi piedi. La spalla di tuo marito urta lo scaffale della libreria e lui impreca, come fa la maggior parte delle notti, ma tu di nuovo non ti muovi, finché lui non ti prende.
LA LETTERA CHE NON INVIERAI MAI.
Pensi a quanto potresti essere spontanea se invece realizzassi di essere diventata una persona completamente priva di emozioni. Persino il cielo grigio dell’inverno si muove più velocemente di te. Sei al di fuori del tuo stesso corpo, lo valuti, gli dai indicazioni come a un animale non ancora addestrato. Come in una sceneggiatura teatrale, col cuore spezzato dall’interpretazione che gli attori hanno fatto delle sue parole, vuoi piangere per la distanza tra ciò che volevi essere e ciò che ti riveli essere.
Vorresti dire a tuo marito di non fare così. Non state drenando un tubo di scarico. Tu muovi la mano nella stessa direzione nella quale lui sta freneticamente cercando un cambiamento, suonando qualche accordo di chitarra spagnola. E che cos’è, poi, questo? Tu muovi le gambe in modo diverso, un po’ più su, un po’ più indietro. Ti immagini gesti di straordinaria spontaneità che portino un’altra bocca sulla tua, chiamandoli profondamente dalla tua corteccia prefrontale. La corteccia non è erotica. La perdi. Tuo marito sospira, un lento sospiro di desiderio esausto, così uno di voi due almeno è soddisfatto. Uno di voi due sta bene con ciò che ha.
Ti alzi dal letto, ti siedi alla scrivania e scrivi. Tiri fuori il maledetto inferno sul tuo amico falso francese in parole che non invierai mai. Provi con parole delicate, con parole d’amore, con sillabe taglienti che feriscono come sassolini nelle scarpe, col sinuoso sentiero interrotto della prima persona singolare del gerundio presente. Riversi intorno a te questi sentimenti quasi fossero fatti di panna densa, riempiendo una caraffa che trabocca sempre di più sul tavolo di tulipier. Prendi i fogli di carta, ripiegando le parole come cartilagine in un fazzoletto. Poi te ne stai in piedi alla finestra, la apri, culli la carta tra le mani e lo lasci libero. Esso cade dritto dritto sul marciapiede, nel nevischio di novembre. Immagini.
Le ombre nel café della milonga girano più veloci, e la stanza si ingigantisce su una triste canzone di violini e desiderio. Molto presto la città sarà inondata dalla luce che celebra conducendo ragazze dai capelli dorati per strade fatte di pan di zenzero. Giusto un po’ Wicker Man, pensi. Immagini di catturare fiocchi di neve con la lingua, o di bruciare dentro un gigantesco spaventapasseri. Ti chiedi come sia possibile che l’esistenza umana possa essere così crudele, così bella, arbitraria, animale, perfetta e terribile, così priva di scopo, eppure vi rimanga qualcosa a cui aggrapparsi a ogni costo, attraverso qualsiasi sofferenza, per tutto il tempo che dura.
LA TEORIA DELL’UNIVERSO IN SILICO, PIENA DI CREATURE SENZIENTI CHE NON SANNO DI ESSERE IN UNA SIMULAZIONE.
Persino il cuore di una tigre, pensi, si ribella a questo.
C’È POI MAI STATO UN MOMENTO IN CUI L’ESSERE UMANO NON VOLESSE QUALCOSA IN PIÙ DI CIÒ CHE AVEVA GIÀ?
Si affretta ad arrivare qui dal Baltico – l’inverno. Puoi sentire i suoi piedi. Ti ricordi di quando, anni fa, hai preso il treno del mattino verso Stralsund e da lì il traghetto per l’isola di Rügen; eri rimasta in piedi sul ponte a guardare lo scafo spargere diamanti sul mare teso. Per ragioni non specifiche, quello era uno di quei giorni in cui pensi che tutto sia possibile. Non è nemmeno nostalgia, ciò che provi. È il sospetto che il ragazzino brufoloso che simula la tua vita nel suo futuristico garage si sia annoiato, si sia scolato una tazza di qualche tipo di siero energetico accresci-vita e ti abbia lasciato in modalità automatica mentre lui si masturba sull’ultima novità del porno spaziale.
Il cielo notturno sopra il tuo appartamento formicola di luci. Esprimi un desiderio sulla stella più luminosa che riesci a trovare. Solo quando chiudi la finestra per far tacere la dannata milonga ti accorgi che la stella è di fatto un aeroplano in fase di atterraggio. Non ritiri il desiderio perché… chissà mai.
La volta successiva in cui lui telefona, ti chiede delle tigri dello Zoologischer Garten. Tu gli dici che la gabbia delle tigri al momento è chiusa perché un inserviente è morto sbranato. Questa cosa uccide davvero la conversazione. Rimanete entrambi in silenzio per un momento, immaginando, forse, la luce negli occhi verdi della tigre, la devastazione del desiderio. Il tipo di morte che viene dal fare qualcosa che per te significava tutto, una volta.
«Dannazione», dice lui.
«Dannazione», gli fai eco tu.
Tutto ciò che non puoi dire con nessuno degli alfabeti del mondo conosciuto lo traduci in gesto spontaneo. Non importa che lui non possa vederti. Queste, dopo tutto, sono le radici biologiche del linguaggio. Questo è il modo in cui l’umanità esprime tutto ciò per cui non ha parole.
Che cos’è questo?
È ciò che è.
E se non lo fosse?
Fine.
© 2016 Lucy Durneen, tutti i diritti riservati
Photo credit: Winter Night City (Berlin) by Matthias Ripp, CC BY