Pithecanthropus erectus

Charles Mingus - Nights At The Roundtable ( 1954 ) [ anna lav ]

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di John de Martino

Dalla fine del mondo al ritiro verso un’umanità giurassica, fino all’Homo erectus. Il contrabbassista Charles Mingus rivede i presupposti della musica jazz, distaccandosi persino dai propri maestri e ritirandosi dentro una personalità complessa.

Su cosa si regge il mondo? Su un tizio con uno strumento musicale in mano, mi sembra evidente. E il tizio? Mah, su un diapason. Il diapason però in effetti è troppo piccolo, non reggerebbe. Hai ragione, hai ragione: cambia, metti un contrabbasso.

La fine del mondo è vicina, secondo me. Gesù sta per arrivare. Arriverà su un carro, prenderà i peccatori e li metterà a sedere in un angolo accanto al Diavolo, poi chiamerà gli angeli e dirà: «Facciamo una Jam Session» (Charles Mingus).

Il contrabbasso. Quella sovraspecie di mastodontico violino con quattro spesse corde di budello, inventato e sempre utilizzato nelle grandi orchestre per riempire le basse frequenze di tutte le monumentali opere dei più grandi compositori della storia dell’umanità, negli ultimi cent’anni è stato anche, ed evidentemente, stuprato. Dalla forma perfetta, elegante e sinuosa, raggiunge il massimo della propria qualità sonora nel registro medio basso, utilizzando un grosso archetto ben impastato di pece. È davvero un piacere poterne cogliere la sonorità, assorbendo dal terreno le vibrazioni che questo strumento provoca, suonato all’unisono con le viole da gamba, o magari in contrappunto con la melodia principale della composizione, coadiuvato da corni, tromboni bassi o quant’altro. Secondo qualche poco raccomandabile personaggio, lo strumento del contrabbasso avrebbe potuto tornare alle origini e diventare, da elegante performer in un ensemble serioso e perfettamente strutturato, la più cruda e crudele forma di espressione musicale del Novecento, in qualche becero locale notturno dentro cui semi-delinquenti dalla pelle scura suonavano in modo tutt’altro che ortodosso questo mirabile strumento.

Charles Mingus era un mirabile delinquente. Personaggio davvero singolare, inizia a suonare da molto giovane il trombone, per poi passare al violoncello, più avanti. Dopo qualche tempo gli viene proposto di mettere le mani su uno strumento che, proprio in quegli anni, avrebbe potuto dare al ragazzo (dalla pelle scura, seppur non scurissima) opportunità lavorative in orchestre nere, considerando il grande successo degli ensemble di jazz neri degli anni Trenta-Quaranta: il contrabbasso.

Qui vorrei giungere già al punto: Charles Mingus era in tutto e per tutto la più vera, calda, naturale e al tempo stesso prepotente forma di espressione artistica, senza fronzoli, senza “se” e senza “ma”, senza lasciare spazio a interessamenti esterni, senza perdere dignità, senza lasciar cadere l’inventiva, senza mai sembrare uno dei tanti. Nel bene ma soprattutto nel male, Mingus rappresenta il ritorno all’origine dell’uomo, una propria forma di ritiro da tutto: nel suo essere estremo, fin troppo crudo, è in un certo senso una forma eccelsa di verità, di ancestrale estratto di umanità, senza traccia di additivi, anzi la massima esposizione emozionale.

Questa mia folle descrizione, che potrebbe sembrare non associabile a un essere umano, bensì forse a un antagonista di una storia a fumetti, può giustificarsi raccontando prima le caratteristiche quotidiane, caratteriali, del nostro personaggio, per poi arrivare a quelle musicali. Peculiarità umane e personali del personaggio Mingus sono rintracciabili nel libro di John F. Goodman, Mingus secondo Mingus. Interviste sulla vita e la musica (Minimum Fax, 2014). Qui troviamo una serie di interviste che il giornalista e musicologo americano fa al musicista, interrogandolo e stuzzicandolo su tanti argomenti, sui quali l’intervistato avrà modo di esporsi spesso in lunghi voli pindarici tra un tema e un altro, di diversa tipologia, sfociando in politica, retorica sociologica e cultura più in generale. Un aneddoto divertente su di lui, per esempio, riguarda il suo personale odio e distacco dalla droga, che come tante altre cose affrontava in maniera perentoria, cercando di convincere i propri partner musicali a smettere di farne uso: si dice che registrasse i propri compagni mentre suonavano sotto effetto di droghe pesanti, per poi far loro la predica spiattellando l’audio di un’esecuzione palesemente moscia. Un’altra volta, invece, ritrovatosi a suonare con musicisti strafatti (tra cui Charlie Parker), si scocciò della scarsa qualità della musica che stava venendo fuori, si spostò con il suo contrabbasso più in avanti, verso il pubblico, ed esclamò ad alta voce, per potersi far sentire: «Signore e signori, vi prego di non associarmi a questi personaggi: questo non è jazz, questa è gente malata!».

Da tutto questo parlare molte cose si evincono, e non in forma lieve: un ingombrante, a periodi obeso, uomo nero dal marcato accento del Sud Ovest degli Stati Uniti (tanto che Goodman a volte aggiunge tra parentesi cellule e locuzioni utili a rendere le frasi di senso compiuto), sicuro di sé, spesso arrogante, per nulla reticente e sempre nitido; racconta di sé lasciando emergere tutte le contraddizioni che gli appartengono: periodi in carcere, situazioni di delinquenza, violenze, rapporti letteralmente folli con le donne. Un esempio di singola umanità votata al proprio unico e vero interesse, sovrastando tutte le possibili sovrastrutture. Il fine giustifica i mezzi, per Mingus: il fine è la sua personale musica, i mezzi sono la più schiacciante forma di se stesso, nella Preponderanza del grande.

La sua musica, solo sua e personale, è vera. Non si potrebbe dare una definizione più azzardata ma al tempo stesso coerente di ciò che Charles Mingus in ogni singola nota voglia raccontarci. Dal punto di vista strumentale è stato uno dei migliori contrabbassisti jazz del suo tempo (era molto competitivo anche su questo, si dice che una volta avesse minacciato al telefono il vincitore di un celebre premio come migliore contrabbassista del mese), ma ciò che davvero lascia a bocca aperta è il colore che le sue composizioni assumono appena dopo la prima nota, lasciando esplodere la sua firma indelebile. A detta di molti esperti in materia (uno su tutti Arrigo Polillo, autore del celebre libro Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro americana), pur avendo avuto come principale ispirazione il compositore Duke Ellington, da cui ha imparato vari impasti sonori, è addirittura riuscito a distaccarsene: mentre Ellington, scrivendo brani appositamente per i propri grandi solisti, risentiva della mancanza degli stessi quando questi se ne andavano dall’orchestra, Mingus è sempre riuscito a mantenere la propria linea, il proprio personale suono a prescindere da chi avrebbe interpretato le composizioni. Il suono è caldo, le composizioni articolate e variopinte, ognuna ispirata a un tema, a un’idea profonda che raccoglie e abbraccia tutti i brani, aggiungendo uno spessore che eleva il prodotto finale ogni volta di più. Uno strumento che diventa inaspettatamente grezzo, un uomo a suonarlo che diventa improvvisamente scuro, feroce e dirompente: la musica invece spesso si tinge di colori soffusi, tanto sofferenti quanto romantici, in una delle forme più sofisticate che l’ultimo secolo di musica abbia mai offerto.

Tutto ciò mi riporta a un argomento primordiale, una visione giurassica dell’essere umano: Pithecanthropus Erectus è un disco del 1956 pubblicato per la Atlantic Records. Non mi dilungherò troppo nel descrivere questa musica, mi voglio limitare a raccontare il primo brano, la traccia che dà il titolo al disco. Qui Mingus vuole raccontare la storia dell’essere umano in quattro tappe: la prima, l’Evoluzione, dove tutto, lentamente, cresce e prende forma (qui Mingus solca il suo contrabbasso con una linea di basso molto semplice, senza eccessiva ricerca armonica, ma badando al suono). Successivamente interviene il Complesso di superiorità, forma che, insita nell’essere umano, affastella argomenti, li rende confusionari e controproducenti (è qui presente una forma di improvvisazione collettiva controllata). Inevitabile, allora, giunge il Declino, che abbassa di nuovo la dinamica riproponendo il tema e porta tutto verso la parte finale, la Distruzione. È incredibile come non ci si renda conto che il disco è suonato da solo cinque strumenti: l’impressione è quella di vedere giungere una marmaglia di ominidi, deboli, barcollanti e insicuri sul proprio prossimo futuro.

Charles Mingus afferra l’umanità. Lo fa con un contrabbasso, riportandola vigorosamente e presuntuosamente verso una forma primordiale di valori, in primis artistici, dandomi e dando a tutto il mondo la possibilità di ritirarsi, verso un’ancestrale visione della terra, sicuramente più vera di oggi.

In my music, I’m trying to play the truth of what I am. The reason it’s difficult is because I’m changing all the time.

Discografia

  • Pithecanthropus Erectus, 1956
  • The Clown, 1957
  • Tijuana Moods, 1957
  • Mingus, Ah, Um, 1959
  • Oh Yeah, 1961
  • The Black Saint and the Sinner Lady, 1963
  • Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus, 1963
  • Mingus at Antibes, 1964
  • Changes I & II, 1974

Autore

  • Studia batteria jazz alla Civica di Milano. È un musicista nato, anche se per capirlo ha dovuto studiare per un anno filosofia. Ora vive praticamente nel suo box, dove si esercita e invita gli amici musicisti.

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