La contrazione del divino

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di Alessandro Vigorelli Porro

La ritirata del principio divino attraverso una contrazione, svelata dal simbolismo della mistica ebraica. Nella qabbalah il tema dello tzimtzum, come fenomeno di epifania ex negativo, dimostra molte analogie con l’esagramma dell’I Ching.

«“La forza delle tenebre è in ascesa. La luce si ritira in luogo sicuro così che le tenebre non possano invaderla”». La voce al telefono tentennò un istante, appesa tra le ultime parole pronunciate e l’aspettativa generata dal pregnante aforisma del commento dell’I Ching. Poi proseguì: «È un segno, Ale. All’ultima presentazione, l’I Ching ci ha indicato l’esagramma 33, La ritirata, quale argomento per il prossimo numero. Non trovi sia l’occasione perfetta per scrivere di qabbalah e del tuo amato tzimtzum?». Federico ridacchiò cantilenando tzim-tzum a mo’ dei vecchi campanelli d’ingresso, come a dire che quelle due buffe sillabe alludono all’apertura di una porta. Eppure tzimtzum (צמצום) è la parola ebraica per “contrazione”, e nell’oscuro linguaggio dei cabalisti indica il movimento di nascondimento e auto-annichilimento a cui si sottopone all’inizio dei tempi En Sof (“Senza fine”, il Dio cosmico dell’emanazione) per aprire lo spazio in cui si situa la realtà. Contrazione e apertura convivono affiancati nello tzimtzum, il primo come realtà effettiva e il secondo come potenzialità negativa inscritta nello stesso movimento di contrazione.

Caduta e rottura dei vasi. Hayyim Vital, Sefer otzrot Hayyim

Caduta e rottura dei vasi. Hayyim Vital, Sefer otzrot Hayyim

Ecco, dunque, che la ritirata del Cielo davanti alla spinta verticale del Monte sembra proprio descrivere il ritrarsi del principio divino per creare quello spazio intermedio in cui tutti noi ci muoviamo: «Sotto il cielo il monte: l’immagine della Ritirata». Strana immagine, specialmente se consideriamo che la montagna è un simbolo universale di vicinanza con il divino. Eppure l’oracolo pare suggerirci che la condizione di questo avvicinamento sia il ritrarsi stesso di Kkienn (“il cielo”), e che Kenn (“il monte”), con le sue due linee spezzate che ne denotano l’elevazione, sia generato dall’allontanamento del divino. Non casualmente l’intero esagramma si chiama La ritirata, non “l’inseguimento”, e la priorità data al movimento distanziante conferma il fatto che l’elevazione e l’anelito che muovono Kenn scaturiscano da un’originaria nostalgia del cielo che fugge.

Seguendo quest’intuizione, proseguiamo nella lettura del responso oracolare. La seconda linea – cioè il secondo “momento” che compone l’esagramma – recita: «Egli lo tiene stretto con un laccio di cuoio giallo». Ma chi tiene stretto cosa? Cosa rappresenta questo laccio giallo teso fra la montagna e il cielo? Se un cabalista leggesse questa frase non avrebbe dubbi: contrariamente a quanto afferma il commento, è il celeste Kkienn a tenere legato il monte, non a discapito, ma proprio in virtù del suo ritrarsi. Il laccio giallo è la luce che si effonde dal divino e manifesta la distanza che separa il cielo dalla terra, lo spazio, appunto. «Ma nel testo c’è scritto “laccio di cuoio”, non si fa menzione della luce» – potremmo ribattergli. Allora possiamo immaginarci il nostro ipotetico cabalista rispondere così:

Vieni, osserva: quando Adamo ed Eva vennero cacciati dal Giardino (Gn. 3.21), il Santo, benedetto Egli sia, fece per loro vestiti di luce. Perché sappiamo questo? Perché nella Torah è scritto: «fece per Adamo e sua moglie delle tonache di pelle» (kotenot ̔or, כותנות עור), ma noi sappiamo[1] che quando si parla di ciò in relazione al Santo, benedetto Egli sia, dobbiamo leggere “luce” (ʼor – אור) e non “cuoio” ( ̔or – עור). Questo laccio di cuoio, di cui parlano i saggi cinesi, è la luce di En Sof (אין סוף) che, secondo la vera dottrina del nostro maestro di benedetta memoria, Luria detto “il Leone”, discende da Lui in forma di linea dopo la contrazione originaria – lo tzimtzum. Infatti, è scritto: «Dopo questo concentrarsi (tzimtzum) vi fu uno spazio ove potevano esistere le emanazioni, le creature, le forme e le realizzazioni. Dalla luce di En Sof derivò allora una linea retta che calava dall’alto verso il basso: quella linea era come un canale sottile in cui si diffondevano e propagavano le acque della luce superna di En Sof verso i mondi situati nello spazio vacuo e cavo»[2]. La linea di luce – il laccio, nelle parole dell’I Ching – giunge fino al limite del nostro mondo, ma non lo tocca mai, anzi, gli si sottrae, e in questo moto attira il mondo a sé. Vedi che, alla fine, non sbagliava il commento quando interpretava il laccio come il legame dell’uomo inferiore – cioè noi mortali – che insegue il nobile – ossia il Creatore?

Elohim crea Adamo_William Blake ( 1795 ) [ anna lav ]

Elohim crea Adamo, William Blake, 1795

Le parole dell’ipotetico cabalista ci permettono di andare a fondo nell’immagine descritta dall’oracolo, e comprendere come il moto fuggente del cielo sia non solo la condizione necessaria, ma anche l’effettiva potenza che muove, ex negativo, la ricerca, lo slancio, il desiderio. Il cielo – e il divino che vi si cela – vi si sottrae costantemente, eppure nel manifestarsi di questa distanza, la luce, già possiamo trovare il legame che ci connette a doppio filo all’origine. Proseguiamo il parallelismo: abbiamo detto che lo tzimtzum è una contrazione a cui è connaturato lo spalancarsi dello spazio cosmico. Nella dottrina luriana – a cui si riferisce il nostro cabalista – questa apertura, in cui si espande la luce in forma di linea, porta a un’instabilità, la “rottura” (shevirah), che è l’origine del male nel mondo, e la cui reintegrazione nell’ordine cosmico (tiqqun) rappresenta lo scopo dell’etica e della religiosità dei cabalisti. Sarebbe davvero sorprendente se le parole dell’oracolo riflettessero questa rottura descritta dalla qabbalah.

«La preponderanza del grande. La trave maestra si piega fino al punto di rottura». Se seguiamo l’evoluzione dell’energia interna all’esagramma della Ritirata, il testo ci porta esattamente in questa direzione! Quest’evoluzione – che in gergo viene chiamata “esagramma di sviluppo” – descrive proprio una rottura causata da un eccesso del principio celeste (sempre Kkienn) situato al centro dell’esagramma sugli estremi deboli che caratterizzano il segno. Come un recipiente inadatto, le linee deboli che aprono e chiudono l’esagramma non riescono a contenere la pulsante energia creativa che anima il centro: il centro – qui descritto come «il grande» – predomina, e questo sbilanciamento conduce alla rottura della trave. La convergenza dei due simbolismi sembra incredibile; anche nella qabbalah la rottura (shevirah) interessa gli estremi che ricevono l’influsso della luce divina che si espande dopo lo tzimtzum: questi recipienti – chiamati vasi – situati al limite del cerchio generato dalla contrazione di En Sof, si rompono perché non riescono a contenere la strabordante luce della creazione. La rottura dei vasi porta a un’inversione dell’ordine, che nell’I Ching viene descritta con questa pregnante immagine: «Il lago sovrasta gli alberi. L’immagine della Preponderanza del grande». Ciò che normalmente sta sotto si ritrova sopra, e gli svettanti alberi vengono schiacciati dalla dirompente forza delle acque: quale migliore immagine per descrivere un mondo capovolto? La qabbalah insegna che questo stadio invertito è necessario, che solo tramite l’immersione della divinità stessa nel male e nel disordine può esistere la creazione come continuo processo di emendamento. L’uomo imita Dio, come il monte segue il cielo, e il processo a cui si sottopone En Sof è lo stesso di cui si fa carico l’uomo per attuare il tiqqun, la riparazione dei vasi. Non sorprende, allora, il responso che chiude il nostro sviluppo: «Bisogna passare attraverso l’acqua. Essa va al di sopra della testa. Sciagura. Nessuna macchia». La rottura è necessaria, e necessario è che la restaurazione passi attraverso l’immersione in questo principio negativo: solo facendoci sommergere e invadere completamente dalla negatività – in ciò sta la sciagura – possiamo uscirne senza macchia, cioè, letteralmente, emendare ciò che è stato spezzato.

Note

[1] Midrash Bereshit Rabbah, 20.12.

[2] Giulio Busi (a cura di), Mistica ebraica, Einaudi, Torino, 2006, pp. 568-569.

Autore

  • Studente di filosofia laureatosi al corso triennale con una tesi focalizzata sull'hegelismo e, dopo un'esperienza di studio a Venezia, al corso magistrale dell'università milanese, presso la cattedra di Storia della filosofia ebraica. Attualmente, è intenzionato a svolgere un dottorato, sempre sul solco del pensiero ebraico.

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