di Lucio Ricca
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Ave, Cesare!, l’ultimo prodotto dell’industria culturale dei fratelli Coen
Qual è il valore del Futuro? Joel ed Ethan Coen provano a dare una risposta a questa domanda facendo la loro offerta ed entrando a capofitto nella più grande industria cinematografica al mondo, quella hollywoodiana all’apice della sua età d’oro, gli anni Cinquanta, ma anche a un passo dalla crisi: lo studio system sta infatti per collassare su se stesso, i grandi Roadshow si stanno evolvendo in qualcosa di diverso, la censura viene sempre più indebolita, la televisione sta strappando il pubblico alle sale cinematografiche, gli spettatori stanno cambiando, si stanno trasferendo in città e sono sempre più giovani, consapevoli e istruiti, la politica estera e interna degli USA sta preparando il terreno a una profonda crisi sociale, alla controcultura, in poche parole a una ritirata del grande sogno americano.
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In pochi minuti ci sono già chiari i meccanismi che regolano lo star system e la casa di produzione Capitol Pictures: ogni cosa può funzionare se perfino il più piccolo granello di polvere si trova nel posto giusto al momento giusto e, soprattutto, se fa quello che deve fare. Ci pensa Eddie Mannix (Josh Brolin) a risolvere ogni problema, dagli scandali più banali alle giornaliste curiose che si fidano di fonti poco raccomandabili, dal cambiamento di immagine di un attore al confronto con i rappresentanti religiosi per poter garantire l’integrità morale del film Ave, Cesare!, dalla scomparsa di una star al circolo vizioso di un’attrice costretta ad
adottare il suo stesso figlio.
Ave, Cesare! è il prodotto sul quale la Capitol Pictures ha investito maggiormente: è un prodotto che guarda all’antichità dell’impero romano, proprio mentre il film dei Coen si attorciglia caoticamente su se stesso con uno sguardo sempre rivolto al futuro (era già avvenuto in Mister Hula Hoop). Sì, ma quale? Le lancette dell’orologio scorrono senza tregua, come a ricordare il futuro che incombe: più volte, infatti, viene chiesto a Mannix di abbandonare il cinema e il suo lavoro («Cosa succederà quando ogni famiglia avrà una televisione in casa?» gli viene chiesto) in favore di una compagnia aerea in crescita (che inoltre svolge studi sulla bomba H)… finché i Coen non mettono letteralmente in scena The Future: è proprio così che si firmano i comunisti che rapiscono la star del film, chiedendo un riscatto di $100.000.
Se di valigette piene di soldi nella loro filmografia se ne sono viste parecchie (Fargo, Non è un paese per vecchi), così come rapimenti e ricatti (ancora Fargo, Blood Simple, Arizona Junior, Il grande Lebowski, Burn After Reading), o ricchi tesori da trovare e caveau da svaligiare (Fratello, dove sei?, Ladykillers), è vero anche che questa volta i dollari in gioco sono veramente pochi, visti i milioni che costantemente macina un’industria come quella hollywoodiana; senza contare il fatto che dietro di essi non si nasconde un vero e proprio rapimento, bensì un rapporto commerciale/contrattuale (elemento già ricorrente in film come
Prima ti sposo, poi ti rovino, Il Grinta) tra i due grandi sistemi che governano l’economia mondiale: capitalismo e comunismo.
I Coen giocano, non fanno altro che mettere in mostra le contraddizioni del sistema capitalista e del sistema comunista, inventandosi una mediazione tra essi che avviene proprio all’interno di un altro sistema posto all’incrocio tra questi due: l’industria culturale cinematografica americana, macchina che dà alla luce (anche in questo caso letteralmente) prodotti di consumo per la massa, mentre al suo interno agiscono forze oscure, sabotatrici, che invece cercano di dare a quei prodotti un livello culturale alto. E così, gli sceneggiatori di Hollywood, comunisti ribelli ma pur sempre interni al sistema di produzione, si siedono tutti in cerchio e parlano per ore e ore di storia e di economia, spiegando al povero malcapitato attore Baird Whitlock (George Clooney) come la realtà sia comprensibile solo attraverso lo studio connesso di quelle due materie.
Ma si sa, con i due fratelli registi «non è [mai] così semplice»: questa è la battuta che più volte si ripete nel film e che un attore di film western, al quale solitamente non viene chiesto di recitare (perché è naturalmente portato per essere un cowboy), si ritrova a dover interpretare in un teatro di posa; anzi, è molto più complicato di così e i fratelli Coen lo sanno bene. Infatti, dopo aver dato spazio nei loro film a un fantomatico Omero, a un avvocato senza scrupoli che sembra interpretare alla perfezione il principio di indeterminazione di Heisenberg, o a un’insegnate che più che spiegare il paradosso di Schrödinger ai suoi studenti sembra viverlo, questa volta mettono fisicamente in scena un filosofo, sociologo e politologo tedesco di origine ebrea, un uomo che ha ancora delle speranze per il futuro: Herbert Marcuse (1898-1979), la vera anima del gruppo di comunisti.
Marcuse, nel suo libro L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, del 1964, parla di un ordine sociale che solo in apparenza è democratico, ma che in realtà nasconde sotto la superficie un sistema totalitario che permea ogni aspetto della vita dell’individuo e, soprattutto, che ingloba anche forze tradizionalmente anti-sistema come la classe operaia (nel film rappresentata dagli sceneggiatori). In questo modello, la vita dell’individuo si riduce al bisogno di produrre e consumare, senza alcuna possibilità diresistenza: Marcuse (marxista, socialista ed hegeliano) denuncia il carattere fondamentalmente repressivo dalla società industriale avanzata che appiattisce in realtà l’uomo alla dimensione di consumatore, euforico e ottuso, la cui libertà risiede solo nella possibilità di scegliere tra diversi e svariati prodotti.
In quest’ottica, i $100.000 di riscatto non sono altro che un piccolo (ma enorme per i comunisti) compenso per il loro pluslavoro di operai che giorno e notte contribuiscono a far funzionare la macchina cinematografica. I $100.000 rappresentano la speranza di un Futuro che vede la crisi avvicinarsi, simbolo di uno scambio paradossale e di una mediazione che non può che fallire, ritirarsi, o meglio affondare miseramente nell’Oceano Pacifico. Quando i comunisti decidono di donare la valigetta all’attore/spia russa (Channing Tatum) per il bene della Causa, le Conseguenze sono inevitabili: affondano i soldi estorti al sistema capitalista, affonda il sottomarino russo metafora di un’ideologia nascosta, oscura e irraggiungibile, mentre ciò che resta a galla è un cane di nome Engels, come a dire che di quel marxismo tanto sognato non resta altro che un nome. Il Futuro fugge lentamente in ritirata tornando tristemente verso la riva, verso Hollywood, dove un altro cane, questa volta nella recitazione, riesce a sopravvivere: il cowboy (Alden Ehrenreich) prosegue la sua nuova e luminosa carriera facendo quel poco che sa fare, ma che è sufficiente al suo ruolo di attore.
È quindi una mediazione fallimentare, soprattutto per due motivi, anche per il sistema hollywoodiano che nel frattempo si è interrotto: la produzione del film non può procedere senza il suo protagonista e inoltre, una volta tornato al suo lavoro, l’attore non è più lo stesso di prima, ora ha preso coscienza di sé, del suo ruolo e della sua funzione nel sistema, divenendo un ostacolo a se stesso e al film. Perciò Mannix lo schiaffeggia, riportandolo alla realtà delle cose: perché se un attore non sa fare la star, allora è inutile al sistema, è un oggetto come un altro che non contribuisce più al fine del prodotto, cioè quello di essere venduto. Paradossalmente, nel momento in cui si dà all’attore più di quanto gli si debba dare, l’attore fallisce, proprio come fallisce miseramente l’ultimo monologo di Baird Whitlock: egli si dimentica solo l’ultima piccola parolina magica, «fede». Fede che invece Mannix, l’unico ad avere una visione d’insieme perché vive il presente in ogni singolo istante, non sembra aver smarrito, nemmeno lasciando di corsa il confessionale per tornare alla Capitol Pictures: egli continua a fare ciò che ritiene giusto con il solo obiettivo di continuare a far funzionare la grande macchina, che a Dio piaccia o meno, che Dio sia uno e trino, che Gesù sia o no il figlio di Dio, o perfino che Dio abbia un cane (ancora un altro cane!).
Marcuse è un’importante chiave di lettura del film per un’altra considerazione che lo ha reso celebre presso gli studenti sessantottini: la grande importanza da lui attribuita all’immaginazione. Se per il filosofo la ragione e il linguaggio non sono in grado di trascendere la realtà e di opporre un grande rifiuto al modello vigente (come peraltro non lo sono i diabolici giochi linguistici dei fratelli Coen), la filosofia deve appellarsi all’immaginazione, unico strumento capace di comprendere le cose alla luce della loro potenzialità. Ma «Immaginazione al potere!», ancora prima di essere l’urlo di battaglia dei giovani rivoluzionari della fine degli anni Sessanta, sembra tuttavia essere il motto dell’industria cinematografica produttrice di sogni. Se Marcuse vede gli studenti (così sembra rivolgersi al legionario romano) come veicolo attraverso il quale poter realizzare la liberazione (insieme ai guerriglieri del terzo mondo, alle minoranze emarginate e a tutti i soggetti non integrati nel sistema), giustificandone anche la violenza perché mossa da una vera e sana intolleranza, la Capitol Pictures non fa altro che appropriarsi di tale motto per
ricordare a tutti i suoi dipendenti che, affinché i sogni vengano creati, ciascuno deve contribuire facendo ciò per cui è stato assunto, nulla di più; è su questo che si basa il potere dell’immaginazione: il potere dell’immagine sotto il quale tutti, compresi i poveri sceneggiatori, devono sottostare. E, infatti, è lo stesso Marcuse a rendersi poi conto che l’immaginazione (nel film è quella degli sceneggiatori) è impotente, se presa singolarmente, e non può raggiungere il potere se non attraverso la mediazione con gli strati interni a esso.
«La realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale», così scriveva Guy Debord (La società dello spettacolo) e i Coen sembrano averlo seguito alla lettera. Secondo il filosofo francese la spettacolarizzazione della realtà prende, in un certo senso, il posto della religione, ma mentre quest’ultima si è imposta, nella concezione debordiana, come fonte di divieti per l’uomo, lo spettacolo mostra all’uomo ciò che invece può fare e sognare. Ecco spiegato il paradossale discorso teologico sulla figura di Cristo che nel film prodotto dalla Capitol Pictures non viene praticamente mai mostrato («Gesù non si vede mai nel film.» «E allora chi interpreta l’attore?»): la religione, di qualsiasi credo essa sia, sembra non comprendere i dubbi di Mannix (mostrando le sue infinite contraddizioni dogmatiche) o comunque restare un passo indietro rispetto a un processo mediatico che fa dell’immagine (o della non immagine di Cristo) il suo Capitale.
In Ave, Cesare! di certo i Coen non si dimenticano neanche delle riflessioni degli altri due noti membri della Scuola di Francoforte (di cui lo stesso Marcuse faceva parte), Max Horkheimer e Theodor Adorno, i quali, in Dialettica dell’illuminismo, si erano ampiamente occupati, con toni piuttosto pessimistici, dell’industria culturale; inoltre, i due registi evocano Walter Benjamin facendo parlare Marcuse: infatti, il libro di quest’ultimo citato in precedenza si chiude con la celebre affermazione di Benjamin: «È solo per merito dei disperati che ci è data una speranza». Se per Marcuse la speranza di uscire da un sistema capitalista opprimente, e fondamentalmente totalitario, va ricercata negli emarginati, nei reietti, nei perseguitati e nei disoccupati (in chi non è ancora stato fagocitato dalla società repressiva), in Ave, Cesare! i disperati sembrano proprio coloro che per sole 27 ore (questo è l’arco di tempo che intercorre tra l’inizio e la fine del film, tra una confessione e l’altra di Eddie Mannix) si muovono in un mondo reale o fittizio (set di produzione) alla ricerca di un ruolo che sia il loro e di un obiettivo giusto da perseguire: il problema è che, ironicamente, tutti i personaggi (attori e comparse, sceneggiatori e giornalisti, etc.) restano all’interno del sistema, perfino Mannix, l’unico che aveva la possibilità di uscirne.
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Il giocattolo postmoderno dei Coen, ancora una volta, ci mostra la loro grande capacità di leggere il presente e di mostrarcelo mettendo insieme tutti i registri e i generi possibili, dal musical al noir, dalla commedia al dramma. Si può dire dunque che i due fratelli cineasti stiano proseguendo fedelmente la loro personale filmografia con un altro prodotto che va a smontare due ideologie totalizzanti e un unico enorme sistema economico (le grandi meta-narrazioni di Jean-François Lyotard), per poi rimontare il tutto e farlo procedere incessantemente verso un futuro, cioè l’oggi (in cui, a quanto pare, tutto funziona esattamente allo stesso modo), che al posto di venirci incontro evolvendosi per cercare di superare limiti e contraddizioni, continua invece a ritirarsi sempre più, riavvolgendosi su se stesso proprio come Ave, Cesare!. Ma allora, quanto vale il Futuro? Sembrerebbe $100.000, non un centesimo di più. E questo, in fondo, basta e avanza perché la valigetta, perfino troppo piccola per contenere quei soldi, e perciò inadeguata al suo compito (come a dire che di dollari ne basterebbero molti meno), non può fare altro che affondare portandosi dietro il significato di uno scambio paradossale tra due sistemi costretti a convivere nell’industria culturale (in questo caso cinematografica) per poter sopravvivere: il capitalismo che finanzia la Causa comunista.