di Victor Attilio Campagna
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Nella dissoluzione descritta da Guido Morselli nel suo romanzo, una doppia ritirata: dagli obblighi dell’esistenza, verso una vita dedita soltanto alla letteratura, e infine dalla vita stessa, verso un suicidio presagito nella lenta dissipazione dell’essere, dentro e fuori la narrazione.
Un quadro del 2007 di Geoffrey H. Short, Esplosione senza titolo #1CF2, fa da copertina a Dissipatio H. G., di Guido Morselli[1] (Bologna, 1912 – Varese, 1973). Considerando le tematiche di questo romanzo, credo che questo dipinto sia più opportuno del quadro di Magritte che illustrava la copertina della prima edizione di questo libro, uscito postumo, come tutti i romanzi dell’autore.
Il titolo si riferisce a un’espressione di Giamblico volta a definire l’evaporazione dell’uomo e la sua annessa fine («C’è una mia vecchia lettura, un testo di Giamblico […]. Parlava della fine della specie e s’intitolava Dissipatio Humani Generis», p. 77). In questa ritirata sembra essere ben delineata la ragione di un suicidio; pare una lettera di motivazione, come se l’autore – che si suicidò il 31 luglio del 1973, lo stesso anno in cui compose questo libro – volesse testimoniare con la sua arte il perché si sarebbe poi ammazzato.
L’apertura del libro ha un che di estremamente enigmatico, difficile da interpretare, in cui il protagonista-narratore riporta «relitti fonico-visivi» che riferiscono di un’umanità multilingue che gli è ormai indifferente; infatti poco dopo definisce questi stessi «relitti» come «inconsistenti, e ormai reliquie», come ad anticipare il mondo che si sarebbe disteso agli occhi del protagonista, il cui nome non è mai menzionato – perché non c’è bisogno di nomi in un mondo che si sta dissolvendo. Qui c’è una sorta di proemio anticipatore, che traccia il percorso che si andrà facendo, divisibile in ben precise fasi:
Da quella notte un mese e mezzo è trascorso […]. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo (p. 9).
Sembra essere l’inizio di un poema onirico, una sorta di proemio anticipatore sulla linea dei grandi testi dell’epica, in cui già l’inizio preconizza gli eventi che seguiranno, senza però alcuna dedica a una divinità. L’ambientazione è, inizialmente, Crisopoli, la città dell’oro, rappresentazione di tutte le città, con tracce che richiamano alcune città reali, come ricorda Antonio Porta in una recensione apparsa su Il Giorno:
Crisopoli, la città ormai deserta (per la cronaca: Zurigo con dentro, se vogliamo, un pizzico di Varese, la “città” in cui abitava Morselli) dove: “… pende un drappo stinto e profetico: CAPITALISTI È FINITA!”[2]
In quest’atmosfera tutto nasce sotto il segno di una sincope. Il protagonista si sente sotto la morsa della paura, è confuso, non riesce a orientarsi («Ci ripenso, e mi giustifico. L’inspiegabile non è l’ignoto […]. È una cosa diversa, che disorganizza […] i nostri schemi vitali», p. 17). Non viene ancora spiegato come sia successo tutto quanto, per cui lo stesso lettore, alle prime pagine, si trova sconcertato, perché si vede tracciare un quadro impreciso, in cui si intuisce che non c’è più nulla dell’umanità che concepiamo. Tutto si è dissolto:
Ero condannato anch’io, fuori di quelle pareti aleggiava un fluido di morte, io c’ero sommerso come in una campana in fondo al mare (p. 17).
Poi, all’improvviso, uno stacco:
Eppure, l’Inspiegabile si è inaugurato per opera mia. Per lo meno, gli eventi che hanno coinciso (all’inizio) con un evento strettamente privato e mio; coincidenza, oso pensarlo, non casuale. La notte favolosa fra il I e il 2 giugno. Quella notte, era deciso, io mi sarei ammazzato (p. 18).
In un momento di lucidità l’autore rivela la ragione della Dissipatio che ci ha anticipato nelle prime pagine. Tutto è per causa sua: il protagonista diventa veramente assoluto, una trasfigurazione dello scrittore onnisciente naturalista che diviene padrone del destino del mondo intero e di esso può fare quel che vuole. Inizia così un percorso in un inferno personale e simbolico, in cui biografia e simbologia si fondono:
[…] il monologo interiore, tipo esemplare della letteratura d’oggi, […] conferma che siamo fermi allo psicologismo del subsentire e del subpensare, che era già artificioso (e noioso) un secolo fa. Ma se qualcuno si occupasse del mio individuo caso, non cadrebbe certo nello psicologismo. Dovrebbe essere riduttivo per forza (p. 19).
Morselli fu spesso rifiutato dalle case editrici. Nacque da una famiglia molto benestante, ma il padre non credeva che la letteratura fosse una strada percorribile e gli impose di studiare Giurisprudenza. Si laureò nel 1935 alla Statale di Milano. Non riuscì comunque ad adattarsi alla vita lavorativa e il padre fu costretto a concedergli un vitalizio per permettergli di vivere solo di letteratura. Tuttavia, il mondo della letteratura non aveva accolto con la giusta attenzione la sua opera: venne sempre rifiutato dagli editori, se non per due saggi, gli unici testi che vide pubblicati in vita. Tutto questo lo portò a una doppia ritirata: da una parte scrisse questo libro testimonianza, dall’altra, il 31 luglio decise di suicidarsi. E in quel brano sulla letteratura di allora (tranquillamente riferibile anche a quella attuale, per certi versi) emerge un certo livore rispetto a una tendenza generale che lui aveva sentito come insufficiente a spiegare la realtà delle cose, tant’è che si definisce «individuo caso»: sottopone se stesso e il suo dolore come motivo di analisi e di innovazione del letterario.
Quindi, il protagonista tenta il suicidio, va sull’orlo di un pozzo, in una grotta. Questo pozzo è una «grande apertura ovale, in fondo a cui stagnava dell’acqua» (p. 22). Alla fine non agisce: viene «agito dal senso organico», perché «85 chilogrammi di sostanza vivente non ubbidivano» (ibidem). Nell’uscire dalla grotta sbatte contro uno spuntone e rimane stordito. Questo momento è cruciale: la simbologia psicologista suggerirebbe che l’ingresso nella grotta sia un atto di regressione nel ventre materno, per non parlare del pozzo ovale, dalle forme evidentemente sinuose, femminili. E l’uscita, condita da uno spuntone che lo stordisce (una figura peniena), corrisponde a una sorta di rinascita drammatica. Eppure l’autore ha chiaramente affermato che dovrebbe essere riduttivo interpretarlo così. E in effetti lo è, perché quest’urto è in realtà l’inizio di un processo di dissoluzione dell’umanità, non di rinascita. Il protagonista del libro vagheggia di ricostruire l’umanità con dei farmaci ansiolitici, alla stregua di Deucalione:
Mi sento in dovere di riseminare (sì, riseminare) la specie, emblematicamente, col metodo di Deucalione. Il quale usò i sassolini che poi si trasformarono in esseri umani. Usando compresse di meprobamato, conto di propiziare una razza più calma, meno rissosa (di quella estinta). E le spargerò, ho pensato, sul campo di tennis del Bellevue dove ho visto giocare le partite di Coppa Davis, zona europea. Se nasceranno saranno bella gente, come i campioni del tennis, e connaturati al fair-play, come quelli. Il rito si è svolto sotto la pioggia. Che del resto usava bagnare cerimoniali meno importanti (p. 81).
Ma rimane forte un’ironia feroce sull’umanità, ormai fissata su modelli fisici precisi, delineati, noiosi, e oppressa dalla ricerca della pillola della felicità. Morselli ha colto in queste poche parole un indirizzo che andava prendendo la società, tant’è che se la rifondasse dovrebbe rispecchiare i suoi totem: bellezza e felicità indotta. Tuttavia, poche righe dopo, stabilisce che non è possibile alcuna rinascita, perché ormai è rimasto solo lui («Io sono il Successore», p. 81) e non c’è alcuna speranza che il mondo si risvegli dal torpore imposto. Unici interlocutori sono il padrone di un cane, di cui l’io narrante trova una lettera scritta poco prima di sparire, in una mansarda del Mayr, un hotel, e il suo psichiatra, Karpinsky, un’allucinazione intermittente che lo accompagna, unico orizzonte di umanità. Questi due scorci di comunicazione sono molto particolari perché raccolgono da una parte una testimonianza alternativa di un uomo cosciente che si sarebbe dissolto, dall’altra il ricordo di un individuo morto molto prima del 2 giugno, data della dissipatio dell’umanità. È proprio l’inseguimento del fantasma di Karpinsky a chiudere il percorso dell’io narrante, tra ricordi e allucinazioni:
In quell’istante dalla cabina ancora aperta qualcuno mi chiama. […] «Sì», dice l’uomo «mi riconosca, sono io». Riconosco la voce. «Sono io e glielo dimostro, ricorda quella poesia che lei m’insegnò? Le recito i primi versi». Li recita. «Ora mi ascolti. So che lei ha bisogno, io le verrò in aiuto. Spero che c’incontreremo presto, dove lei non ha potuto seguirmi» (p. 118).
Sotto questo enigma si formano le ultime pagine, dove l’inseguimento del suo punto di riferimento, Karpinsky, la sua «isola», come lo definisce l’autore stesso, diventa il finale perfetto di una ritirata, in cui si suggerisce più e più volte che tutto questo è frutto del suo immaginario. Il suo psichiatra rappresenta l’accettazione della sua morte, trasfigurata nella dissoluzione dell’umanità. È così che si compie l’ultimo atto di Morselli: accetta l’idea di morire e lo comunica all’unico essere cui valesse la pena confessarlo, il suo lettore. Bellissime le ultime parole:
Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua piovana (saranno guasti gli scoli nella parte alta della città) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno stato leggero di terriccio. Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore. In tasca tengo, per lui[3], un pacchetto di Gauloises (p. 142).
Qui si compie l’accettazione. Nel ricordo dell’ultima persona capace di capire e guidare Morselli in un mondo che per lui s’era dissolto ormai; quel cupio dissolvi humani generis non è nient’altro che il desiderio trasfigurato dell’io narrante, e il suo potere assoluto nient’altro che la capacità di decidere del proprio destino di morte.
Si può dire che non c’è psicologismo in questo romanzo: nella natura del nulla che si reifica in questo testamento, emerge un ultimo dono di un uomo che ha visto nell’umanità una traccia indelebile di ingiustizia; eppure, ha scorto anche qualche bellezza, ed è in essa che rivive il suo ultimo pezzo di strada, poco prima di ritirarsi per davvero, conscio che il mondo non sarebbe cambiato per questo: tutto sarebbe continuato a esistere, nell’indifferenza. L’opera di Morselli, però, si è confermata come differente e ora la possiamo leggere con l’occhio attento di chi non si è dissolto, lasciando un vuoto enorme in chi riesce a cogliere la sofferenza di un uomo geniale, che ha pensato di reificare il cupio dissolvi di una società persa e alienata, disperata, ingiusta, in cui l’unico orizzonte è l’umanità profonda di uno psichiatra che usava poco dare farmaci, l’unico vero medico dell’anima, l’unica guida possibile in un mondo che riduce tutto a una pillola.
Note
[1] Guido Morselli, Dissipatio H. G., Adelphi, Milano 1977.
[2] Giornolibri, 2 marzo 1977, p. 1.
[3] Karpinsky (NdR).