Apologia del palliativista

di Yasanthi Ilayperuma

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Di fronte a morti “ineluttabili” la medicina, anziché dirsi sconfitta, impara la dignitosa ritirata dalla cura contro il male al palliativo, che alcuni medici “specialisti” somministrano per addolcirne il cammino. 

Flesh and Stone, Ph. Anna Laviosa, 2010

Flesh and Stone, Ph. Anna Laviosa, 2010

L’habitat naturale dell’uomo moderno è indubbiamente il web. Si fa soldato in una guerra senza esclusione di CTRL contro tutti, in cui l’eletto vincitore è – molto darwinianamente – il più adatto. Nella fattispecie, il più adatto a sopravvivere con una tastiera tra le mani è l’individuo più concitato e cocciutamente affezionato alle proprie convinzioni, quali esse siano.

Navigando in queste infide acque virtuali, mi è capitato recentemente di trovare un blog interamente dedicato a un tema molto specifico. Era una dichiarazione di guerra fatta da un rancoroso internauta nei confronti dei palliativisti. Ebbene, sì. La cosa mi ha sorpreso non poco: chi si prende la briga di accanirsi contro una categoria di persone così precisa? E soprattutto: chi accidenti è un “palliativista”?

E così, ho fatto le mie ricerche. Il palliativista è un medico specializzato; può essere oncologo, anestesista o geriatra. Si occupa, molto intuitivamente, di fornire cure palliative. In realtà non esiste in Italia un indirizzo specialistico che incanali esclusivamente verso questa mansione, quindi se ne occupa uno specialista di altro tipo.

Chi sceglie di diventare medico o infermiere può avere alle spalle un milione di motivazioni del tutto diverse tra loro. Credo sia però assodato un fatto, ovvero che aneli prima di tutto a svolgere un lavoro volto alla guarigione del malato.

Eppure, le cure palliative sono tutte quelle cure e premure che non cercano di eliminare una malattia, come normalmente avviene in medicina, ma che tentano solo di alleviarne i sintomi. L’unità di cure palliative mette in atto quegli accorgimenti che non vogliono porre un freno alla morte, ma solo evitare al morente una morte senza dignità. La cosa più difficile da comprendere appieno è che non è una questione d’interesse solo per dei fantomatici altri, quegli altri che si sono ammalati e stanno morendo. Tutti noi siamo morenti, in quanto mortali. Come direbbe Umberto Tozzi: «Gli altri siamo noi». D’altronde, la morte non è l’ovvia conseguenza della vita e quindi l’inevitabile destino di tutti noi? Di fatto, sì: lo è. Bulgakov faceva dire ne Il maestro e Margherita: «Sì, l’uomo è mortale, ma questo è ancora il meno. Il guaio è che può morire all’improvviso, è qui il punto!». Ma è davvero un guaio la morte improvvisa?

La morte ha il pregio – e il difetto – di essere un ospite di cui sappiamo solo che prima o poi verrà a farci visita, ma di fatto, da sani e giovani, viviamo nell’amnesia del suo arrivo. Il moribondo terminale e l’anziano in fin di vita, invece, la sentono già borbottare sul pianerottolo davanti alla porta e possono solo chiedersi quando infine vedranno quella maniglia abbassarsi.

Il problema è che ognuno reagisce diversamente al momento della comprensione assoluta che quella maniglia, dopotutto, si abbasserà davvero. E in quel lasso di tempo, che può essere anche interminabilmente prolungato, il morente vive una serie di problematiche concatenate che affollano la sua mente e spossano il suo corpo.

Sarà preda di un pot-pourri di emozioni forti o patirà una piatta apatia. Potrà sentire stress, senso di colpa, ansia. Tutte le domande esistenziali per cui aveva provato solo un vago interesse in gioventù (o comunque prima della diagnosi) diventeranno incalzanti e comincerà a premere il bisogno di risposte certe. Qualcuno chiami il prete, si solleciti il rabbino, si consulti il monaco!

Risolte le questioni ultraterrene, rimarranno da affrontare quelle terrene. La vita di ognuno di noi è intrecciata a quella di centinaia di altre, con alcune più che con altre. Come può un genitore andarsene serenamente se non è certo che i suoi figli se la caveranno? L’eredità, i problemi di custodia e in generale le questioni giuridiche non possono più essere rimandate. Chi ha vissuto liti può cercare infine una riconciliazione, può chiedere o concedere perdono o, al contrario, tagliare i ponti in maniera definitiva.

E poi ci sono tutte quelle questioni che sono direttamente legate alla morte, al confine tra il qui e il dopo; termini come “eutanasia”, “accanimento terapeutico”, “nutrizione forzata”, o la differenza tra “guaribile” e “trattabile” sembrano semplici ma non vanno mai dati per scontati. I parenti si troveranno di fronte a delle scelte, ma possiamo toglier loro questa bega esprimendo già da subito e da sani un parere sul “fine vita”, tramite la compilazione del DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento), rintracciabile su Internet, che si affiderà a una persona fidata; questa sarà la nostra voce quando non potremo più parlare.

Queste tematiche sono forse le più delicate e personali al mondo. È qui che entrano in gioco le unità di cure palliative che sono team costituiti da medici, infermieri, psicoterapeuti e volontari. È fondamentale che guidino il malato con adeguata apertura mentale. Hanno il dovere di mettere a disposizione le proprie capacità per permettere al morente di esercitare il proprio libero arbitrio senza imporre le proprie convinzioni. Cosa, chiaramente, per niente facile.

Questi professionisti entrano poi in gioco per un altro aspetto da non sottovalutare: il dolore. Ci sono tante questioni da affrontare, ma affinché la nostra mente possa rimanere lucida e concentrarsi sul filosofare, è necessario che le richieste del nostro corpo non ingombrino i nostri pensieri. La terapia nelle cure palliative non è da intendersi come cura placebo. Si alternano farmaci efficaci contro la malattia e analgesici per meglio tollerarla; tuttavia, con l’avvicinarsi del taglio delle Moire, la componente antidolorifica supera progressivamente quella volta a limitare la malattia, fino a prenderne totalmente il posto. Se questo è il massimo intervento farmacologico possibile, come pensare di negarlo?

La verità è che fino a poco tempo fa questo tipo di provvedimenti non esisteva. Dobbiamo a Cicely Saunders l’esistenza stessa degli hospice, le strutture residenziali dove il malato inguaribile può vivere gli ultimi giorni in un luogo protetto e con la garanzia del rispetto di tutte le sue necessità, fin proprio alla fine. La Saunders (1918-2005) è stata un’infermiera inglese, diventata medico solo in un secondo momento. È stata lei a introdurre il concetto di “dolore totale”: prima si curavano solo i sintomi fisici finché era possibile e il massimo di sostegno spirituale era l’estrema unzione. È stata la prima a vedere la dignità in una composta ritirata della medicina, che non abbandonasse nessuno sul campo di battaglia.

L’hospice fornisce un’assistenza a 360 gradi. Il problema quindi non è tanto per i pazienti quanto per il personale. Sono richieste massima professionalità e distacco ma, al contempo, manifestazioni di calore e vicinanza, che necessariamente comportano un coinvolgimento. Non sorprende che negli hospice il rischio di burnout sia triplicato rispetto ad altri luoghi di lavoro.

E allora perché ho trovato un blog tanto rovente e battagliero nei confronti degli hospice e di chi ci lavora? Nel blog in questione, l’accusa era che questi fossero luoghi dove non si combatte per la vita ma per la vittoria della morte. Leggendolo a fondo, ho scoperto che questa persona ha subito un lutto e ha commutato la sua impotenza in ira e odio nei confronti di chi c’era alla fine. Questo è ingiusto, ma forse è ingiusto anche che questa persona non abbia ricevuto il sostegno psicologico di cui tanto disperatamente ha bisogno. La questione è anche questa: chi resta deve imparare a vivere un’esistenza menomata; lo psicotanatologo, psicologo del lutto e della morte in genere, può aiutare a fronteggiare la sfida.

Tutti noi moriremo. E no, caro lettore, questa non è una verità deprimente, non leggermi con quello sguardo. Non è mai prematuro pensare alla morte. Chi rifugge il pensiero non ha colto quanto il nostro essere mortali impreziosisca la vita stessa! D’altronde, come diceva la saggia Rita Levi Montalcini: «Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita».

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